La povertà nella vita religiosa: 3. Meno cose, più relazioni

Si è svolto a Lodi il 15 e 16 febbraio u. s. il convegno formativo annuale delle Figlie dell’Oratorio, come annunciato sul tema «Nella povertà, pellegrini di speranza».

Possono povertà e speranza stare nella stessa frase? Sembrano due termini in contraddizione l’uno con l’altro, autoescludenti. Dove c’è l’una, è possibile che ci sia l’altra? In tutti gli interventi dei relatori è emerso come la povertà non sia un valore assoluto, ma subordinato a Gesù Cristo. La scelta della povertà vissuta senza di Lui è puro masochismo, una sventura. Se la povertà non è giustificata da Cristo Gesù, non solo non serve, ma è una piaga che deve essere combattuta.

A questo dato se ne unisce facilmente un altro, che lo illumina e completa: se esistono i poveri è perché qualcuno si è lasciato ingannare dal principio di arricchimento e di accumulo per sé stesso e non ha fatto della condivisione con l’altro lo stile della sua vita. L’esistenza dei poveri è un affronto al sogno di Dio, che ci ha costituiti come persone solidali, custodi del creato e dei nostri fratelli e sorelle. La povertà evangelica ha senso solo se collocata in una vicenda di comunione e di relazioni, vissute non facendone il luogo dell’affermazione di sé stessi ma del dono e della cura. Questo ha vissuto Gesù di Nazareth nella sua esistenza, ascoltando il grido dei sofferenti, lavando i piedi, facendosi piccolo, non servendosi del divino per trovare il pane, non alleandosi con i potenti, non buttandosi dal tempio per fare facili miracoli, andando fino in fondo nel momento in cui arrivò la prova, senza fughe strategiche.

Lo stile di vita di Gesù ci mostra che la povertà ha più a che fare con le relazioni che con le cose. In un mondo che continua a creare bisogni fittizi che ci inducono ad accumulare e a trangugiare qualsiasi cosa pur di sentirci sazi – in realtà svuotandoci sempre di più – ritorna l’urgenza di far posto agli altri. I social media assorbono molto, troppo tempo delle nostre giornate, impoverendo le nostre relazioni in profondità.

Dando sempre più spazio e importanza alle cose (quelle da avere, ma anche a quelle da fare: gli impegni, le opere apostoliche, i progetti pastorali…) siamo arrivati a trascurare i rapporti umani, che sono essenziali come l’ossigeno che ci permette di vivere. Ecco allora il campo in cui deve giocarsi la partita del voto di povertà che abbiamo scelto di vivere: la vita comunitaria e fraterna. La questione non si gioca tanto nel non possedere quanto nel non possedersi, nell’opporre all’autoreferenzialità e al narcisismo l’apertura all’altra e il riconoscimento di essere bisognose l’una dell’altra. Recuperare uno stile relazionale evangelico tra di noi è forse la sfida a cui siamo chiamate a rispondere oggi. Non è un passaggio banale, perché forse anche nelle nostre comunità circolano le tossine descritte da questa frase a firma anonima:

«Le persone esistono per essere amate. Le cose esistono per essere usate. Se c’è tanto caos in questo mondo, è perché le cose vengono amate e le persone vengono usate».

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