La povertà nella vita religiosa: 1. «Vivano da povere»
L’annuale Programma di Formazione Permanente per le Figlie dell’Oratorio propone, nei prossimi giorni, un approfondimento sul Voto di Povertà. È in questo clima che apriamo la condivisione di alcuni post che riprendono come il nostro Fondatore san Vincenzo Grossi ha proposto la dimensione della povertà nella Vita Consacrata.
Nelle sue parole, che vengono attinte dai primissimi documenti dell’Istituto e dalla corrispondenza con le suore, non si possono cercare dei suggerimenti operativi per oggi ma delle suggestioni, degli orientamenti ispiratori, da approfondire e da interpretare nell’attuale contesto storico-temporale ed ecclesiale.
Lo scopo della formazione permanente, che prevede anche un sano ritorno alle sorgenti dell’Istituto, è proprio quello di aprire cammini piuttosto che dare soluzioni.
«Vivano da povere»
«Le religiose vivono e devono vivere da povere» (Costituzioni del 1901)
Non era una «esortazione» spirituale scritta da don Vincenzo Grossi per le suore, ma un ordine.
Scorrendo le fasi storico-sociali oltre che economiche dell’Istituto, il vivere da povere si è coniugato in una multiforme varietà, ma ci sono delle costanti che meritano di essere evidenziate.
La più significativa è stata la scelta della gioventù «bisognosa» nella apertura delle case, nelle classi sociali a cui era rivolta l’opera delle comunità, negli stessi territori geografici in cui l’Istituto ha accettato o scelto di diffondersi, fondamentalmente libere dai condizionamenti di benefattori o dai legami imposti da contratti.
Un altro aspetto non trascurabile, è lo spirito di adattamento che le singole suore o le comunità hanno assunto come stile. Forse dietro la più classica espressione «spirito di sacrificio» si può leggere l’adattamento di ognuna come disposizione del cuore e del corpo con tutte le sue facoltà, ma anche della stessa comunità, ad assumere le più variegate situazioni ambientali, sociali, ecclesiali con tutti i limiti che imponevano, i condizionamenti che esercitavano, i disagi e le rinunce che comportavano, come i luoghi «normali» per vivere la propria consacrazione e missione.
Ci sono state anche delle interpretazioni riduttive di questo ordine a vivere da povere che hanno avuto un influsso sfavorevole.
Certe trascuratezze nell’abito a scapito di un aspetto dignitoso, come pure la resistenza ad adeguarsi all’uso di strumenti che lo sviluppo tecnologico offriva, l’identificare nel lavoro manuale la quintessenza della «santità» e della missione (proverbiale le espressioni correnti «sgobbona o di buon comando» magari tradotte come «generosa e docile»), certe privazioni fini a se stesse…una «dipendenza» minutissima dalla autorità che ha prodotto una multiforme serie di escamotages per evitarla senza sentirsi trasgressive («basta avere il permesso»).
A distanza di un secolo e un quarto, quale significato dare a queste parole «vivono da povere»?
Possono essere molteplici le indicazioni che ci vengono dalla persona di san Vincenzo Grossi e dalla memoria di numerose suore. Tra esse ne scegliamo una che è un richiamo immediato agli Atti degli Apostoli: «Mettevano in comune i loro beni e li distribuivano secondo il bisogno». Se oggi non possiamo fare a meno di strumenti adeguati per la comunicazione e per la mobilitazione, di mezzi appropriati per il mantenimento o la cura della salute, o più genericamente di alcuni confort, la condivisione può essere l’espressione più alta del «vivono da povere». La condivisione, che nella Incarnazione ha un richiamo immediato e un termine di confronto a cui non poter sfuggire, abbatte i confini del «mio», dell’accumulo, delle garanzie, del poter disporre a propria discrezione…perché ciò che ho, diceva un vecchio andante, «mi è stato dato in uso».
In questo processo non è da trascurare come piattaforma esistenziale al «vivere da povere» il contesto familiare in cui abbiamo vissuto, prima della scelta vocazionale, ma anche quello in cui vive oggi la maggior parte della gente comune.
La vita comunitaria diventa, comunque, la scuola dove si apprende e si affina lo stile del condividere, da estendere anche nell’ambito sociale ed ecclesiale locale.