Una rom insolita nel quartiere della movida

Katia è una rom dei paesi dell’Est. Ogni giorno, in prossimità dell’orario delle celebrazioni, si siede alle porte della chiesa parrocchiale per chiedere l’elemosina. Sistema i suoi sacchetti che le fanno da cuscino, la foto dei figli, sempre la stessa da dieci anni, un messaggio di richiesta d’aiuto, volutamente con errori di ortografia.

La vediamo anche all’uscita della metropolitana, di un supermercato della zona e alla sera davanti al cinema del quartiere.

Dove mangia? A volte condivide con una connazionale il cibo che le viene regalato da una tavola calda, o altri alimenti semplici e solitamente si mette al riparo dagli occhi dei passanti.

Dorme sotto i portici di un centro commerciale, in gruppo. Donne e uomini rom stanno insieme per difendersi dai malintenzionati delle notti balorde della movida. Di giorno nascondono i loro approssimativi giacigli tra i cespugli di una aiuola e la sera li sistemano con ordine: cartoni, coperte, qualche piumone. Ciò che ancora non si è capito, è dove si lavano. Si guardano dal frequentare centri caritas e simili.

Katia, anche se non lo ammette, è nella rete di un racket che controlla l’accattonaggio rom. Ogni tre/cinque mesi rientra nel suo paese, con un pulmino, dopo aver racimolato il denaro sufficiente per pagare il biglietto.

Gli abitanti del quartiere la conoscono e nessuno le nega una moneta che lasciano nel bicchiere di carta che lei porge a chiunque passa, e a volte anche qualche biglietto.

Da noi suore non riceve denaro, ma beni in natura, medicinali da banco, scarpe e ogni anno l’immancabile coperta di lana quando arrivano i primi freddi.

E le custodiamo, nel sottoscala della nostra casa, le piccole spese di indumenti che fa in vista del suo rientro presso la famiglia.

La prima volta si è trattato di un sacchetto, poi due borse, l’ultima volta 4 borsoni. Ma glieli custodiamo di cuore.

Fin qui tutto normale perché nella cultura rom noi siamo i gagi, cioè quelli che possiedono i beni e ai quali loro per tradizione e cultura possono e devono chiedere quello che gli serve.

Ma un giorno questo principio si è letteralmente rovesciato.

Katia, quando mi sono avvicinata, mi ha preso la mano e mi ha dato l’equivalente di un caffè.

Sono stata assalita da sorpresa, confusione… disagio e commozione.

In quel piccolo gesto si stava capovolgendo il principio classico dell’elemosina: io che possiedo do a te che chiedi. Mi ha messo a parte dei suoi beni, le monetine che riceve, frutto di elemosine.

«Io devo aiutare te», continuavo a ripeterle, ma Katia, in un italiano approssimativo, mi diceva che eravamo come due amiche e lei mi voleva offrire un caffè.

Le mie parole e il mio tentativo di rifiuto rischiavano di suonare per lei come una espressione quasi blasfema perché volevano mantenere un diaframma nella circolarità, volevano ripristinare l’ordine: io sono gagi e ti faccio l’elemosina, tu sei rom e chiedi l’elemosina.

Il corrispondente di un caffè in un quartiere opulento e godereccio come quello in cui lei chiede l’elemosina, è come l’obolo della vedova del vangelo che getta le sue monetine nel tesoro del tempio. Poche ma autentiche pietre preziose per i sentimenti che hanno aperto la mano per privarsene.

La sua mano si è stesa non per ricevere, come è suo solito, ma per donare, per condividere.

Non è stata l’unica volta che Katia mi ha «fatto l’elemosina», e le monete le conservo come un dono.

Mi sono guardata bene dal rifiutare anche solo per convenienza. Il suo volto è troppo bello e luminoso quando io accetto le monetine e percepisce il mio imbarazzo.

Vorrei abbracciarla, ma dentro di me ci sono ancora delle resistenze e delle paure, io che sono chiamata alla «carità perfetta».

 

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