Che setaccio utilizzo?

È giunta in redazione una riflessione autobiografica di una figlia dell’Oratorio. Ci piace condividerla: il messaggio che trasmette fa bene tutti noi. Non è ambientata in clima natalizio, ma trova radici nel significato vero del Natale: un Dio che ha usato con noi, peccatori, un setaccio dalle maglie larghe ed ha scelto di farsi uomo. Grazie a questa sorella!

Al papà, intento a rimontare una vecchia sveglia, o a riparare il meccanismo di un giocattolo, capitava di ascoltare la moglie che con le figlie, sedute vicine a lei sul divano, parlavano fitto fitto di suocere, di vicine, di cognate e simili. E più gli argomenti erano circostanziati e arricchiti da dettagli, più abbassavano la voce e, lui, ormai un po’ duro d’orecchie, non riusciva a capire tutto ma quanto gli bastava per non condividere. Sembrava noncurante delle loro chiacchiere, fino a quando o per interrompere la conversazione o per far notare la sua presenza, si alzava e, avvicinandosi al gruppetto, sentenziava tra il benevolo e il sapiente: «Non usate il setaccio fine con gli altri!»  E dissimulava con queste poche parole il suo disappunto per quello che aveva sentito.

Il setaccio per le giovani figlie era un vago ricordo della loro infanzia, quando la mamma ne faceva uso quotidiano in cucina.

Quando abitavano in cascina, sopra la madia delle farine (bianca e gialla) ne troneggiavano due, uno grande e uno piccolo. Erano parte integrante delle attrezzature  per la cucina contadina degli anni cinquanta: venivano usati per setacciare la farina in particolare quella di mais per la polenta. Nella macinatura qualche sassolino o altro corpuscolo potevano essere sfuggiti e quindi prima di stemperarla nell’acqua, occorreva l’operazione della setacciatura.

Ma il setaccio piccolo? Aveva la rete con la trama più sottile rispetto al setaccio grande e veniva utilizzato per ottenere il «fioretto», una parte di farina fine fine che veniva aggiunta perché la polenta rimanesse più morbida e al palato sembrasse meno grezza.

Nella Amoris Laetitia si trova questa espressione di papa Francesco che spiega la metafora: «Nel vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui… Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro». E aggiunge: L’altro  «ama  come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, anche se limitato». (Cap 4, nn. 100 e 113)

Il papà non sapeva di teologia familiare, né comunitaria, ma il suggerimento alle donne della sua famiglia lasciava intendere che aveva più familiarità col setaccio a maglie larghe che con quello fine, perché il suo intento era di voler costruire l’armonia sia familiare che sul lavoro e con i vicini.

Rispondi