«Per»

Proseguono le catechesi del mercoledì di Papa Francesco

sul tema dell’evangelizzazione. Questa volta a essere messi sotto la lente di ingrandimento sono i «martiri, uomini e donne di ogni età, lingua e nazione che hanno dato la vita per Cristo, che hanno versato il sangue per confessare Cristo». Il pontefice fa notare che «la parola “martirio” deriva dal greco martyria, che significa testimonianza. Un martire è un testimone, uno che dà testimonianza fino a versare il sangue». 

Ma cosa significa testimoniare Cristo? Da dove nasce la forza di tante persone per arrivare addirittura a morire? Lungi dal voler identificare la testimonianza soltanto con la coerenza fine a se stessa, impregnata di ideologia e rigidità, o con il senso del dovere spinto fino alle estreme conseguenze, illuminanti sono le parole di San Giovanni apostolo nella sua prima lettera: «Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16).

La testimonianza non può essere separata dall’amore: san Giovanni dice chiaramente che è l’amore ricevuto che fa da propulsore all’amore non innanzitutto per Dio, ma per i fratelli e le sorelle. È vero che i martiri sono testimoni di fede, ma il dono della loro vita è sempre legato all’amore verso qualcuno. Le vite dei martiri sono sempre spese per riscattare le vittime di ingiustizie e soprusi, per ridare la dignità a coloro a cui è stata sottratta, per non ripagare con la stessa moneta chi usa la violenza e la prevaricazione. Così è successo a padre Pino Puglisi, a Oscar Romero, a Lorenzo già nel III secolo, quando poteva aver salva la vita ma testimoniò fino in fondo il suo amore per i poveri suoi assistiti, il vero tesoro della Chiesa.

«I cristiani sono condotti dallo Spirito a impostare la loro vita sul fatto che il Signore Gesù ha dato la sua vita per loro, e dunque anche loro possono e devono dare la vita per Lui e per i fratelli». Gesù non è morto per amore di Dio, ma per amore delle persone. Al centro della sua attenzione ci sono i fratelli e le sorelle. Non è per la fedeltà a dogmi e principi che Gesù dona la sua vita, la sua non è una testimonianza di coerenza a regole e comandamenti. Il profondo amore del Padre che sente rivolto e versato su di sé non viene da lui trattenuto, ma donato in abbondanza a chiunque incroci la sua strada.

Sempre diciamo che i martiri sono morti «per» Cristo. La lingua italiana permette di giocare con questo «per», che possiamo intendere non soltanto come espressione di una finalità (lo faccio per te, questo regalo è per te, muoio per te), ma anche come complemento di moto attraverso luogo (passare per Roma, guardare per il buco della serratura). Allora i martiri sono quelli che muoiono per Cristo non nel senso di finalità, ma nel senso di «attraverso»: l’amore da cui si sentono amati è la via che percorrono per amare a loro volta. Luminoso l’esempio citato nella catechesi: «Alcune suore Missionarie della Carità hanno dato la vita in Yemen. Ancora oggi esse sono presenti, dove offrono assistenza ad anziani ammalati e a persone con disabilità. Alcune di loro hanno sofferto il martirio, ma le altre continuano, rischiano la vita ma vanno avanti. Accolgono tutti, di qualsiasi religione, perché la carità e la fraternità non hanno confini. Suor Aletta, Suor Zelia e Suor Michael, mentre tornavano a casa dopo la Messa sono state uccise da un fanatico. Più recentemente, nel marzo 2016, Suor Anselm, Suor Marguerite, Suor Reginette e Suor Judith sono state uccise insieme ad alcuni laici che le aiutavano nell’opera della carità tra gli ultimi. Sono i martiri del nostro tempo. Tra questi laici uccisi, oltre ai cristiani c’erano fedeli musulmani che lavoravano con le suore. Ci commuove vedere come la testimonianza del sangue possa accomunare persone di religioni diverse. Non si deve mai uccidere in nome di Dio, perché per Lui siamo tutti fratelli e sorelle. Ma insieme si può dare la vita per gli altri». Per gli altri, attraverso Cristo.

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