Don Vincenzo e i tempi moderni
L’avvicinarsi di date significative della vita di san Vincenzo Grossi offre l’opportunità di proporre alcuni post che, attingendo alla sua esperienza di fondatore, possono introdurci ad una rilettura ermeneutica della sua vicenda a cui siamo essenzialmente legate. È una fatica da affrontare, soprattutto in questi tempi, in cui la verve di originalità della sua opera sembra affievolirsi in più strati esistenziali e storici.
La vitalità di un carisma non si misura dal perdurare nel tempo delle attività e delle opere scaturite, né nella quantità numerica di quanti si ispirano ad esso, ma dalla possibilità di potersi rigenerare proprio sotto la spinta delle mutate condizioni sociali e temporali, cioè delle persone e delle vicende contingenti.
Il carisma è mantenuto in vita dallo Spirito, ma la sua vitalità ha bisogno di contesti e canali idonei perché esprima la sua natura di dono al servizio del bene e della edificazione comuni.
Vincenzo Grossi è stato parroco in una fase dei tempi moderni -seconda metà dell”800 e inizi ‘900-, tra le più complesse e travagliate della storia della Chiesa in Italia. Non solo. Fu parroco in una Diocesi, quella di Cremona, che ha subito pesantemente, nel clero e nel tessuto religioso della popolazione, il contraccolpo di questa crisi.
Verso la fine del 1800 i fermenti pastorali, che avevano ricevuto una forte spinta dagli eventi politici e sociali, proponevano la necessità di organizzare e armonizzare la vita della parrocchia con l’impegno socio-politico. Più il potere del nuovo Regno d’Italia si imponeva con il suo laicismo se non addirittura anticlericalismo, più avanzava nella Chiesa e nei suoi pastori «l’intenzione di recuperare popolarità attraverso il modulo di una Chiesa di servizio. Si cercava di costruire una cittadella democratica cristiana grazie a una serie di iniziative, mutue, scuole, società, cooperative, circoli giovanili, leghe bianche» (C. Bellò).
In questo tratto di storia, nel solco della parrocchia di don Vincenzo, incomincia a germinare, accanto a queste iniziative, una nuova iniziativa «sociale»: la fondazione delle Figlie dell’Oratorio.
Carlo Bellò, storico e presbitero cremonese, scrive che «Questa tacita istituzione appartiene a una fase del vivere della chiesa contemporanea. È l’invenzione di un’anima capace di cogliere fra i segni dei tempi il segno della chiamata; un modo di tradurre la storia in fatto operativo. La testimonianza contiene i caratteri della innovazione dentro la tradizione».
Dopo la fase di animazione pastorale che sottolineava la vocazione sociale della Chiesa, sopraggiunge in Italia la crisi modernista.
Il modernismo non costituì per don Vincenzo una tentazione né riguardo alle proprie convinzioni religiose né a mutare il rapporto con la Chiesa.
In quel tempo era preso dall’urgenza di perfezionare l’invenzione dell’Istituto, perché la finalità sociale riuscisse ad esprimere il suo nucleo, il carisma; era impegnato a plasmare le coscienze mediante la formazione e l’accompagnamento, «a dedicare giorni e forze nelle piccole grandi cose che lo zelo sa ritrovare oltre le zone del dovere formale…» (C. Bellò).
Nei suoi scritti e nella corrispondenza, come nelle relazioni presbiterali, la sua figura sembra quasi avulsa dagli eventi grandiosi del suo tempo, ma esprime una coerenza eroica. Nella monotonia provinciale e rurale del suo ministero, don Vincenzo ha incarnato in sé e nell’istituzione generata «la dimensione domestica della Chiesa come di famiglia antica e severa. Ma non senza cuore» (C. Bellò).
Le tensioni dell’anima della fondazione e delle persone che la vivevano, come della sua, «che emergevano dalle piccole storie di cose e di coscienze, sembravano passare nelle affollate e clamanti strade degli eventi umani in punta di piedi» (C. Bellò).
Senza essere, per questo poco risalto, ininfluenti.