La zizzania del clericalismo (Sinodalità e VC – Sintesi 2)
Una chiesa di uguale partecipazione, dove tutti i battezzati si sentono fratelli e sorelle in Gesù Cristo, dove le questioni più importanti vengono risolte consultando il maggior numero di persone coinvolte, dove chi è diverso, chi denuncia e annuncia viene ascoltato, il sogno di una chiesa sinodale che non dia importanza ai titoli o alle cariche, ma alle relazioni dirette e trasparenti, basate sul valore della persona è un desiderio da perseguire. Le espressioni sono tratte dal documento di sintesi sinodale della vita consacrata nella sezione in cui si evidenzia il sogno di chiesa che i consacrati e le consacrate portano nel cuore: una chiesa libera dal clericalismo, quell’erbaccia che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio e non solo a pochi eletti e illuminati» (Papa Francesco, lettera al Popolo di Dio).
I religiosi e le religiose sottolineano come «un modello patriarcale e gerarchico prevale ancora nella comprensione teologica e pratica del ministero e dei “tria munera” battesimali. Tale modello trascura la dignità fondamentale di ogni battezzato, considera il clero come una razza a parte, motiva un trattamento arrogante e irrispettoso dei laici e impedisce forme di collaborazione e di mutua relazione».
Parole come quelle dell’enciclica Vehementer nos del lontano 1906, quando le sensibilità erano molto diverse dalle attuali, riassumono lo sviluppo del clericalismo lungo i secoli: diceva papa Pio X: «La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori». Ci è voluto il Concilio Vaticano II per arrivare a dire invece che nella Chiesa «vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo. Comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è né schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù”» (LG 32).
Il clericalismo non riguarda solo i preti. Ha riverberi nocivi anche all’interno della vita religiosa stessa. Non tanto, o non solo per i rapporti con il clero (la sintesi dice chiaramente che le religiose spesso sono considerate solo come manodopera a basso costo), ma anche per le relazioni interne tra i membri delle congregazioni, per il modo in cui vengono intese e vissute l’obbedienza e il servizio dell’autorità.
Nel codice di diritto canonico i fedeli diocesani vengono ancora indicati come «sudditi» del vescovo. Ma lo stesso termine è presente anche negli ultimi documenti riguardanti la vita consacrata per indicare chi non ha un ruolo di autorità. Nella chiesa locale il vescovo decide tutto e non esiste alcuna partecipazione ufficiale dei laici nel governo della diocesi; lo stesso avviene per il parroco nella parrocchia. Ma questo non di rado succede anche all’interno degli istituti religiosi, tra superiori generali o locali e – appunto! – i sudditi. Il processo di declericalizzazione che deve affrontare la Chiesa interpella fortemente anche la vita consacrata, chiamata a una revisione di se stessa, a una rilettura dei voti in chiave sinodale, a un discernimento condiviso e comunitario. Ne va del suo futuro e quello delle generazioni a venire.