Gli occhi profondi del parroco, don Giuseppe Favenza (Guardare don Vincenzo con … 4)

Sotto lo sguardo di Don Giuseppe Favenza, nel corso dei 24 anni in cui fu parroco a Pizzighettone, dal 1844 al 1868, sono passati centinaia di bambini, prima per il battesimo, poi in occasione della prima Comunione e della Cresima e dei relativi corsi di preparazione, rigorosamente tenuti da lui. Non possiamo però pensare che siano state le uniche occasioni di incontro, perché tutte le domeniche, alla messa, le prime panche della chiesa si riempivano di bambini, e dietro, un po’ più timidi gli adolescenti, mentre i giovani incominciavano a frequentare la «messa grande».

Nel caso di Vincenzo, il periodo di ministero del parroco Favenza ha coinciso con i primi 24 anni di vita del giovane, per cui è provata la familiarità tra i due, anche se non ci ha consegnato nessun ricordo diretto del suo parroco.

Ci sono alcuni frammenti di memorie indirette che rimandano al suo modo di guardare a Vincenzo. È don Vincenzo stesso che racconta ad una suora che dopo la prima comunione ricevuta nel 1856 all’età di undici anni, incominciò a seguire un «metodo» di vita, a cui si atteneva con diligenza e scrupolosità. Per quanto l’incontro con Gesù Eucaristia possa aver segnato la mente ed il cuore del ragazzo, sicuramente il metodo deve averglielo suggerito il parroco al quale rendeva conto in occasione delle frequenti confessioni. Don Favenza vedeva che Vincenzo non solo era sveglio, ma anche sensibile e aperto alla grazia e lo coltivava.

Il giorno in cui, il ragazzo riuscì a condividere con il parroco la sua intenzione di entrare in seminario e la risposta del padre che rimandava ogni decisione, don Giuseppe si propose di accompagnarlo negli studi ginnasiali privatamente. Preveggenza o intuito di vocazione? Non era insolita questa modalità di preparare i candidati, ma don Favenza non si sarebbe reso disponibile ad un tale impegno se fosse stato solo per favorire l’acquisizione di un titolo di studio. E poi l’ha fatto gratuitamente o ricevette qualche compenso dalla famiglia? Non abbiamo informazioni in merito. Certo è che aveva visto in lui dei segni di vocazione al sacerdozio e l’accompagnamento, anche nello studio, poteva essere una occasione per avere conferme per sé e per il ragazzo.

Non risulta dagli archivi del tempo, ma era prassi che il futuro seminarista fosse presentato dal parroco al Rettore del Seminario, e che la domanda per poter essere ammesso fosse accompagnata da una sua relazione. Don Favenza aveva buone argomentazioni e non faticò a descrivere quello che aveva visto nel corso di cinque anni di accompagnamento, di lavoro e di studio, di fatica fisica e intellettuale.  

I giudizi scolastici (dal 1866 al 1869) e le note del Rettore che li accompagnavano confermeranno quello che lui aveva visto perché descrivevano il seminarista come «giovane dotato di buon ingegno, diligentissimo nella applicazione e lodevolissimo nella disciplina».

 

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