Sinodalità, fraternità e discernimento comunitario (Sinodo 12)

Sinodo e sinodalità, seppur intrinsecamente legati, non sono la stessa cosa. Il sinodo infatti è uno strumento nella cassetta degli attrezzi della Chiesa, e come ogni strumento non può essere fine a sé stesso, ma veicolo per raggiungere un obiettivo: vivere la sinodalità, quel camminare tutti insieme che è – o dovrebbe essere – la dimensione costitutiva della Chiesa.

La Chiesa realizza il suo autentico modo di essere e di vivere nell’arte della relazione, coltivando l’incontro. È nelle relazioni fraterne, ascoltando gli altri e cercando insieme il cammino da seguire che la Chiesa convalida e plasma la sua identità. Il problema però è che non si può dare la fraternità come un dato di fatto. Al contrario, si tratta di una categoria piuttosto problematica, tanto che una delle prime pagine della sacra Scrittura è quella di un fratello (Caino) che uccide l’altro (Abele) per invidia e gelosia. Tutta la Bibbia è piena di racconti dove i fratelli fanno una fatica enorme ad accettarsi e a vivere un rapporto pacificato e non ostile.

Una fraternità data per scontata è retorica, perché la presenza di legami di sangue non rende automatico il passaggio a una relazionalità limpida e amorevole, non è garanzia che non ci si faccia del male a vicenda e si trovi sempre un accordo. È necessario imparare a camminare insieme e chiedersi se davvero vogliamo farlo; il punto di partenza non è l’essere fratelli ma il volerlo diventare, anche se il dato naturale afferma il contrario. La fraternità è una realtà da edificare su basi che non siano solo quelle antropologiche o sentimentali. Costruire una Chiesa sinodale significa proprio fare crescere un’esperienza di fraternità senza lasciarla garantire semplicemente da meccanismi che reputiamo automatici o spontanei. Non è la vita ecclesiale come tale che assicura la fraternità ma è la capacità della Chiesa di darsi istituzioni adeguate a questo.

Il sinodo in corso è certamente da annoverarsi tra queste istituzioni: occasione unica per far emergere le ferite dovute a una mancata fraternità e per trovarne una cura, modificando strutture e sistemi in modo che offrano modalità relazionali più fraterne e credibili. Perché questo avvenga è necessario un processo di discernimento, non solo a livello personale ma ancor di più comunitario. È questo atteggiamento che può far emergere la necessità che abbiamo come Chiesa di incontrarci maggiormente, di sintonizzarci di più, perché spesso nelle nostre comunità (parrocchiali o religiose che siano) facciamo fatica a farlo. Solo con un processo di questo tipo si impara maggiormente a mettersi a disposizione degli altri, ci si conosce meglio, si riesce a condividere più in profondità e si riesce a discutere e confrontarsi su cose che ordinariamente possono essere divisive. Occorre stare attenti a tutte le voci che appartengono alla comunità, lasciare spazio a ogni «anima», ascoltandola come se fosse la prima volta e superando i pregiudizi che nascono dal presupporre dove l’altro voglia andare a parare.

Un percorso di questo tipo richiede un grande esercizio di fiducia nello Spirito Santo e negli altri, per resistere alla tentazione di sospetti reciproci, tatticismi, dietrologie e complottismi («Perché sta dicendo queste cose? Cosa c’è dietro?»); più semplicemente, ci fidiamo reciprocamente, credendo che quello che stiamo proponendo alla comunità e che quello che l’altro sta dicendo, è frutto di una storia e nasce da un sincero ascolto interiore mosso dallo Spirito, messo in comune per la ricerca di un bene più grande. Non siamo noi a dover decidere i risultati, a determinare il percorso. A noi tocca questa fiducia spirituale, consapevoli che il Signore accompagna la storia della sua Chiesa.

Forse il sinodo potrà aiutarci a scoprire che stare davanti a questioni difficili, senza fughe e col coraggio di parlarne, non è necessariamente divisivo, ma può farci trovare una maggiore unità, che è sempre un dono dello Spirito.

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