Consacrato non significa separato (Sinodo 11)
Riguardo al Sinodo il teologo Piero Coda ha affermato che «è l’evento di Chiesa più importante – e anche strategicamente più decidente – dal Vaticano II in qua. Perché dell’ecclesiologia del Vaticano II costituisce l’espressione più genuina e sfidante». Il post precedente a questo – sul tema del processo sinodale – si concludeva prendendo in esame la realtà della vita consacrata all’interno di questo percorso che coinvolge l’intera Chiesa. Se il sinodo è occasione di discernimento e novità per tutti, allora anche i religiosi e le religiose sono chiamate non solo a fare la loro parte perché il processo coinvolga il maggior numero possibile di persone, ma a lasciarsi mettere in discussione dalle tante provocazioni che stanno emergendo dal cammino in corso e ad accogliere le conseguenze che potrà avere anche sulle strutture e sovrastrutture che caratterizzano questo stato di vita.
In un percorso avviato proprio perché la Chiesa riscopra la sua vocazione a camminare insieme e in cui viene continuamente ribadito che la sinodalità è un suo elemento costitutivo, i religiosi e le religiose non possono più definire la loro identità a partire dal significato etimologico della consacrazione, ovvero la separazione. Non è di molto tempo fa la spiegazione della vita religiosa come via della perfezione evangelica; si affermava che la pienezza della vita cristiana (la perfezione appunto) era conseguibile soltanto nello stato religioso, svalutando in qualche modo lo stato laicale. Questa modalità di concepire la vita religiosa – legata a una certa visione di Chiesa – è già stata in buona parte sorpassata, ma è innegabile che ci portiamo appresso ancora qualche strascico di questa impostazione. Il sinodo attuale ci sta dicendo che è necessario mettersi in ascolto dello Spirito, rompendo tutti gli schemi che hanno tenuto separati i consacrati, per unirsi agli altri in un’impresa che è di tutti, secondo una logica di piena ed effettiva sinodalità (L.Guccini, 2018).
Guardando alle origini di questa modalità di incarnare il vangelo scopriamo che la cosiddetta «fuga mundi» (fuga dal mondo) che l’ha caratterizzata agli inizi, non era la fuga dalla realtà o una separazione da essa, ma da un cristianesimo che – divenuto religione dell’impero – cominciava ad essere in qualche modo connivenza col potere. Non era dettata dal desiderio di isolarsi, ma da quello di tornare a un vangelo di minoranza, che per essere vissuto non ha bisogno di essere ammesso nei centri del potere politico e religioso. Quale occasione è allora il sinodo per riprendere questo dato originario e raccogliere il richiamo a uno stile cristiano in cui il Vangelo è una scelta di vita e non un elemento di tradizione, dove al centro dell’attenzione non ci sono più le grandi strutture, ma l’essenzialità della comunione e della fraternità. Uno stile in cui venga ridimensionato il dato istituzionale e recuperato quello carismatico, dove con “carismatico” non si fa riferimento al carisma degli istituti religiosi (cioè a ciò che li distingue), ma al carisma battesimale e al dono dello Spirito: dunque, a ciò che fa di tutti una cosa sola.
Forse anche oggi alla vita religiosa è chiesta una «fuga mundi», non nell’ottica di una vita vissuta a parte, isolata, quanto dell’assumere atteggiamenti particolari nei confronti della vita, che si differenziano dallo stile generale, non perché si separano dalla comunità ma perché sentono questa responsabilità che porta ad essere più aperti verso la cura di tutto quello che è l’habitat della comunità.
Papa Francesco nel 2013 indicava la stessa direzione: «Il fantasma da combattere è l’immagine della vita religiosa intesa come rifugio e consolazione davanti a un mondo esterno difficile e complesso. Bisogna uscire dal nido e abitare la vita degli uomini e delle donne del nostro tempo».
Alla luce di tutto ciò, per la vita religiosa risulta determinante riconoscere che le istituzioni (anche le sue) sono faccenda umana e per questo sono destinate a finire. È necessario riconoscerne la non assolutezza, a ridimensionare e limitare l’istituzionalizzazione in cui è caduta e a recuperare quella malleabilità e libertà originarie per discernere come reinvestire le sue energie, per rimanere al servizio degli uomini e delle donne di questo tempo, per camminare insieme a loro condividendone le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, senza separazioni di sorta.