Il primato delle relazioni (GMG 2021-4)

«E aveva visto come i cristiani rispondevano al male con il bene, all’odio con l’amore, accettando le ingiustizie, le violenze, le calunnie e le persecuzioni sofferte per il nome di Cristo.

Dunque, a ben vedere, Saulo in qualche modo – senza saperlo – aveva incontrato Cristo: lo aveva incontrato nei cristiani!»

Chi scrive queste parole, che si riferiscono all’esperienza di san Paolo, è il papa nel messaggio per la giornata mondiale della gioventù del 21 novembre 2021.

Capita spesso di pensare ai giovani e iniziare a ragionare su cosa si possa o debba fare per loro. Mi convinco però sempre di più che il passo che è chiesto al mondo adulto per far davvero qualcosa per i giovani sia quello di uscire dal ruolo di chi conduce i giochi o dirige i lavori e assumere la disponibilità a cambiare prospettiva. Il ripensamento è chiesto a noi, il lavoro da fare è su noi adulti, non in primis sui giovani.

Forse sbaglio, ma credo che i cristiani incontrati da Paolo – in realtà ancora Saulo – non erano preoccupati di convertire nessuno. Molto più semplicemente, rendevano soltanto ragione della speranza che era in loro, vivevano la loro fede incarnandola nelle loro vicende quotidiane, nell’ordinarietà delle loro giornate. Indubbiamente erano in un contesto non proprio ordinario, quanto piuttosto di persecuzione, che li esponeva al pericolo, al rischio di essere vittime di ingiustizia, di esclusione, addirittura di morte, come santo Stefano. Ed è proprio lì che vivono la loro fede e si manifesta l’amore che da essa sboccia. La conversione di Saulo non è il frutto di elaborati e complessi piani pastorali, né tantomeno l’esito di incontri vocazionali ben preparati o di un grande programma di evangelizzazione. L’aguzzino Saulo è diventato San Paolo solo perché ha incontrato Cristo. E come dice la Scrittura (At 9,5), lo ha incontrato nei cristiani che perseguitava. Lo ha incontrato nel perdono che Stefano gli ha offerto prima di morire anche per causa sua (At 7, 60), nella mitezza di Anania, che non ha paura di chiamarlo fratello nonostante sia il suo persecutore (At 9,17), lo incontra nei volti di una comunità che ha deciso di vincere il male con il bene, che non si vendica, non lo ripaga con la stessa moneta di morte, non approfitta del suo stato di debolezza per aggredirlo e sopraffarlo.

Queste persone non volevano convertire Saulo in Paolo, non cercavano di «agganciarlo» in qualche modo ai loro ambienti, di far breccia nel suo cuore per avere un proselito in più. Hanno solo vissuto il comandamento dell’amore, fino all’estremo, fino ad accogliere il nemico. Ed è quando si ha il coraggio di chiamare il proprio persecutore «fratello» che si annuncia il Vangelo.

Da questo mi sento fortemente interpellata. Ad annunciare il Vangelo così, vivendolo nelle relazioni, nei rapporti umani. Le nostre strutture e sovrastrutture sono state strumenti importanti di annuncio del Vangelo ma oggi pare non rispondano più così efficacemente a questo compito. Da mezzi rischiano di diventare fini. Sento, per me e per i giovani a cui sono e siamo mandate, una forte chiamata a sfoltire, sfrondare, alleggerire, snellire, per ritornare al nucleo centrale della nostra fede, senza paura di perdere spazi, senza paura del vuoto, appoggiandosi non alle strutture ma alla sola forza della comunione e della fraternità, fondate sulla gratuità dell’amore di Dio. Ancora una volta riscopro che quel che alla fine di tutto resta e attrae è la qualità delle relazioni che viviamo e che costruiamo. Il Vangelo non passa da nessun’altra parte se non dai rapporti umani vissuti nella libertà e nell’autenticità, nei gesti gratuiti, nel dono di sé all’altro, anche quando mi opprime. È questo che fa breccia anche nei cuori più duri, come quello di Saulo il persecutore. Gesù stesso l’ha detto: «Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri». Questo sia il nostro orizzonte!

suor Federica Tassi

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