O trasformazione o morte (Patris corde)
Siamo tutti esausti della situazione che stiamo vivendo. Non ne possiamo più di zone rosse, gialle, bianche, di distanziamenti e limitazioni. Abbiamo voglia di tornare alla vita di prima, ci manca la normalità, la agogniamo, la desideriamo. Ma sappiamo bene che al termine della pandemia, nulla sarà più come prima. Quella «normalità» che tanto ci manca non potrà più tornare, almeno non nelle stesse forme e nelle stesse modalità che conosciamo. Volenti o nolenti, ci è chiesta una trasformazione del nostro stile di vita, un cambiamento di mentalità e di abitudini, una responsabilità personale, civile ed ecclesiale perché quanto vissuto non resti solo una brutta parentesi, ma possa segnare un cambio di passo. Già da prima della pandemia Papa Francesco insisteva nel dire che «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento e della parresia».
In questo cammino che può diventare «kairòs» per avviare processi e smetterla di occupare spazi, ci è di aiuto guardare a San Giuseppe, la cui vita, almeno da un certo punto in poi, pare essere sfuggita al suo controllo a causa di eventi tanto imprevisti quanto destabilizzanti. Per prima cosa, «è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria» (Patris Corde). Chi, nei suoi panni, non ne sarebbe sconvolto? E come se non bastasse, «l’evangelista Luca riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù» (Patris Corde). Sappiamo bene in quali condizioni: «vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi» (Patris corde); personaggi, luoghi e fatti abbastanza impensabili. Ancora, Erode vuole uccidere il bambino e i tre, sotto la guida di Giuseppe, scappano in Egitto, per tornare poi in Israele, affrontando un’ulteriore incognita, il cambio di destinazione dalla Giudea a Nazareth.
«Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione» (Patris corde) o anche di irrigidimento e chiusura. Anche Giuseppe avrebbe potuto rimanerne vittima, ma dopo un immediato e comprensibile smarrimento, accoglie quanto succede, cambia prospettiva e vive la trasformazione e il cambiamento davanti allo snocciolarsi degli imprevisti.
Si pone domande, non rimane chiuso nei suoi schemi ma affronta quanto vive con elasticità di mente e di cuore, disposto a non farsi tane e nidi, a non chiudersi nella sua «zona di confort», comoda e sicura. Discerne, sceglie, compie azioni che generano dinamiche nuove. Quando i vangeli parlano di lui ce lo descrivono sempre in movimento. Ma Giuseppe non è ipercinetico! Il suo spostarsi fisico e geografico è reso possibile solo dalla sua disponibilità alla trasformazione, dalla sua capacità di non rimanere bloccato nella fissità del previsto. Ed è questo atteggiamento che gli permette di salvare dalla morte – oltre e più che se stesso – «il bambino e sua madre». In barba alle nostre resistenze alla trasformazione, «Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni» (Patris corde).