«Giochi di ruolo» (Fratelli tutti 7)

C’è un passaggio della Fratelli Tutti, il n. 101 già citato in un altro post, che è molto breve ma molto significativo. È quello in cui si riprende ancora la parabola del samaritano per mettere in evidenza come i ruoli abbiano poco a che vedere con il Vangelo di Gesù.

«C’era un uomo ferito sulla strada. I personaggi che passavano accanto a lui non si concentravano sulla chiamata interiore a farsi vicini, ma sulla loro funzione, sulla posizione sociale che occupavano, su una professione di prestigio nella società. Si sentivano importanti per la società di quel tempo e ciò che premeva loro era il ruolo che dovevano svolgere».

Per queste persone religiose (parliamo di un sacerdote e di un levita), ciò che conta non è il vivere il comandamento di Dio, ma usare di questo per l’affermazione di sé, per emergere agli occhi degli altri e avere potere su di loro. A livello esteriore tutto è «come si deve», viene ben curato tutto quanto contribuisce a un’immagine positiva di sé e tutto ciò che è fonte di stima e prestigio. L’essere in regola con la norma è una via molto buona per ottenere credito, per essere considerati buoni cristiani, ed è anche più facile e umanamente meno dispendioso. Ma, seppur con una patina devota, tutto è guidato da logiche mondane e distanti dai sentimenti che furono di Cristo Gesù. Quello che conta è affermarsi. Ci si ferma all’apparato, senza rendersi conto che è sempre l’IO ad essere al centro di tutto, pur attraverso «prestazioni religiose in nome di Dio». Tutto questo non è dettaglio da poco, perché ha una ricaduta enorme sul nostro modo di essere chiesa, sull’impostazione che si dà alla pastorale e all’apostolato. La funzionalità, ovvero quella dinamica che inesorabilmente fa sì che i mezzi prendano il posto dei fini e che ci si fermi ai problemi strutturali e istituzionali, si traveste da zelo, si mostra come disponibilità al servizio, come generosità. In realtà ciò che preoccupa è la buona organizzazione, l’efficienza e non il rinnovamento spirituale e il mettere radici profonde nel vangelo.

Prima della pandemia tante nostre parrocchie avevano ritmi più che sostenuti. Gli impegni pastorali si moltiplicavano, le agende erano fitte di appuntamenti e riunioni, le cose da fare non mancavano mai. Cose buone naturalmente, tutto serve. Ma serve nella misura in cui aiuta a vivere di più il vangelo, non a far stare in piedi le nostre strutture e la loro gestione. Le risorse e le energie migliori spesso vengono spese per «far funzionare la macchina organizzativa», a scapito della qualità della vita evangelica che dovrebbe sostenere tutto questo. Tanto che non è inusuale che tra operatori pastorali nemmeno ci si conosca, perché ci si ritrova solo per organizzare, gestire, programmare, pianificare, senza interrogarsi su quale tipo di fraternità lasci trasparire il nostro agire.

Ma il significato della vita per un cristiano, la sua vocazione vanno sempre al di là del ruolo che ricopre. Forse, per come siamo fatti, abbiamo anche bisogno di ruoli, ma se ci identifichiamo con essi siamo ben lontani da quanto ci indica la parabola: «il samaritano generoso resisteva a queste classificazioni chiuse, anche se lui stesso restava fuori da tutte queste categorie ed era semplicemente un estraneo senza un proprio posto nella società» (FT 101).

La chiesa al suo interno fa ancora molto (troppo?) riferimento a ruoli e titoli. E all’esterno è ancora piuttosto preoccupata della posizione (del potere?) che ha nella società. Papa Francesco non esita a chiamare tutto questo «clericalismo». Strutture e apparati appesantiscono e bloccano l’agire cristiano, togliendo quell’agilità e leggerezza necessarie per una dinamica di vita che caratterizza il samaritano, il quale «libero da ogni titolo e struttura, è stato capace di interrompere il suo viaggio, di cambiare i suoi programmi, di essere disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo ferito che aveva bisogno di lui» (FT 101).

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