Il mio «incontro» con il Fondatore
Ho sempre considerato la parola «galantuomo» un sostantivo del vocabolario povero ed essenziale dei contadini di un tempo, quando non sapendo leggere e scrivere, gli affari e gli accordi erano siglati con l’espressione «parola da galantuomo». E invece è stata per me una bella sorpresa e un tocco di familiarità scoprire che questa parola era usata correntemente anche da don Vincenzo Grossi.
Me lo fatto diventare familiare, conterraneo, presente nelle radici della mia formazione umana. E quindi l’incontro con lui è stato un «c’eravamo già incontrati».
È stato necessario molto tempo per poter ricomporre le tessere che mi hanno consentito di avere una mia conoscenza personale di don Vincenzo che non fosse solo un bagaglio di notizie su di lui, di racconti belli ed edificanti, ma quel ritrovarmi in qualcosa di Lui che arrivava fino alla mia vita di figlia dell’oratorio.
Il parroco dei tempi della mia adolescenza era originario di Regona e sua mamma fu figlia spirituale di don Vincenzo. C’era pure Argilla, la sua perpetua, proveniente da Vicobellignano, che fin da adolescente aveva conosciuto don Vincenzo. Dai semplici aneddoti che mi raccontavano, dalla descrizione molto naturale della sua persona e del suo operato, mi feci l’idea di un prete con uno stretto legame alle persone, alle loro vicende umane e spirituali, piuttosto che un personaggio idealizzato e nobilitato dalle sue stesse virtù.
Negli anni della formazione iniziale, complici il grande impegno e l’entusiasmo che fervevano attorno ai processi di beatificazione che si trovavano nei passaggi cruciali, l’approccio è stato ad un futuro santo. Insieme alla biografia ufficiale, c’erano le ormai rare e quindi preziose testimonianze delle suore che lo avevano conosciuto de visu o della seconda generazione: le une e le altre non si risparmiavano di accentuarne l’eccezionalità o l’eroicità delle virtù, come si usava dire allora. Quell’immagine che mi veniva presentata, mi sembrava però troppo umile, troppo povero, troppo generoso… troppo in tutto, per cui rimanevo un po’ distanza.
In seguito, in occasione della sua beatificazione venne pubblicata una seconda biografia, meno aneddotica e più contestualizzata nella storia della Chiesa e civile. Leggendola, incuriosita proprio da questi elementi, ho intravisto un prete con una robusta pastoralità, un po’ alleggerito dall’alone di santità di cui era stato circondato, un prete più ordinario, ma straordinariamente ordinario.
Circostanze successive mi diedero l’opportunità di conoscere i suoi scritti, in particolare le lettere indirizzate alle prime suore. Mentre le leggevo e rileggevo, mi appariva davanti un don Vincenzo che affrontava responsabilmente gli aspetti giuridici, ecclesiali e civili, che la nuova fondazione esigeva. Responsabilità, quindi, non solo spirituali ma anche organizzative ed economiche che egli assunse in pieno, perché, se non ben esercitate, potevano compromettere e ridicolizzare una iniziativa tanto benemerita.
Tra queste lettere, quasi un diario dei suoi ultimi 20 anni, ho incontrato la parola «galantuomo», quella che mi fece dire: «C’eravamo già incontrati!». In quel momento, alla luce di tanti altri precedenti elementi, capii in che senso questa parola esprimeva bene il carattere e lo stile di don Vincenzo, le sue scelte ordinarie e straordinarie, cioè da galantuomo. Don Vincenzo metteva ogni cura nell’essere un galantuomo e nel comportarsi da galantuomo.
Approfondendo questi scritti, «galantuomo» riferito a lui non ha solo una valenza morale, ma è la parola che dice la solidità della sua persona su tutti i versanti. In lui il «sì era sì e il no era no». E allora la sua umiltà, indicata come la virtù che lo caratterizzava, prima e ben più che essere poca considerazione di sé o modestia, era semplicità e trasparenza, e il suo autocontrollo, altra virtù segnalata in lui, più che un esercizio ascetico, era genuinità, coerenza, linearità. La stessa generosità con i poveri, i fittavoli, le suore non era solo beneficenza, ma dare a ciascuno il suo, non come se si trattasse di una restituzione o di una elargizione, ma perché gli spettava.
Don Vincenzo mi affascina perché è un prete granitico, come uomo e come sacerdote, un prete essenziale, saldo nell’esperienza spirituale, fermo nel servizio pastorale, retto nelle intenzioni. Un prete senza svolazzi mistici, senza circonlocuzioni dottrinali, un vero galantuomo anche nella fede.
suor Caterina