Parole… d’oro!
La vita delle piccole comunità di don Vincenzo doveva avere un carattere familiare e non conventuale, per cui non avevano un regolamento rigido da osservare ma delle raccomandazioni da custodire che dovevano favorire uno stile.
Egli visitando le suore le esortava ad aver tanto riguardo ad aprire la bocca, come ad aprire il borsellino...
Ripeteva che non basta che le cose da dire siano buone, è necessario che sia buona anche l’intenzione.
A quelle che si sentivano particolarmente impegnate nella nuova missione faceva presente che dire cose buone per comparire spirituali e per spacciarsi come persone d’ingegno è ipocrisia e vanità.
C’erano poi alcuni principi generali che dovevano regolamentare le loro conversazioni come considerare il tempo ed il luogo in cui si parla cioè se nelle ore di silenzio o di riposo, non interrompere perché è poca creanza e poca umiltà, non rispondere prima d’avere ascoltato, con pericolo di comparire di poco cervello.
Ma soprattutto egli raccomandava di curare il modus loquendi, perché la modalità inopportuna non fosse di impedimento all’interlocutore ad accogliere il messaggio.
Caldeggiava di parlare con semplicità, con umiltà, evitando ogni parola di superbia o di vanagloria; con dolcezza, che non si dica niente che sappia di impazienza e di mormorazione; con modestia, astenendosi da gesti e risa smoderate, o da voce troppo alta. E a chi parlava senza controllo ricordava spesso le parole di S. Girolamo: «Lapis emissus est sermo prolatus», cioè la parola uscita dalla bocca è come la pietra uscita dalla mano, non puoi più bloccarla.
Il Fondatore è stato precursore dei tempi. Ha posto in essere uno stile di vita comunitaria copiato…..nel tempo