Dialogare ovvero ascoltare (*)
Quando in un convegno, come quello organizzato dal Claretianum e appena conclusosi, è un formatore a tenere una relazione, è quasi scontato che affronti il tema del colloquio, del dialogo. Don Giuseppe Forlai, direttore spirituale del seminario romano maggiore, ha sviluppato una conversazione sul «Dialogo» sicuramente non tecnica, ma sapienziale. Se qualche presente aspettava dei suggerimenti pronti per l‘uso è rimasto deluso. Il relatore, infatti, ha cercato di scoprire come Dio dialoga con la sua creatura. E, se il racconto biblico delle modalità con cui Dio intesse la relazione con l’uomo sembra semplice, lineare, quando dobbiamo decodificarlo e assimilarlo, scopriamo la nostra distanza dal Suo modo di essere e di fare.
Essere interlocutori di un giovane, di un adolescente nel discernimento vocazionale come nell’accompagnamento, ma anche nel contatto ordinario con la realtà giovanile nella scuola o nella catechesi, ha spiegato il relatore, è una grazia che ci viene fatta. Non è frutto della simpatia accattivante, dell’efficacia delle argomentazioni, del savoir fair a la mode o di un giovanilismo fuori luogo del formatore. Quest’ultimo non è colui che decide di iniziare la conversazione, lo è chi gli sta di fronte e solitamente in dieci secondi decide se continuare o se liquidare l’interlocutore.
Nelle conversazioni importanti veniamo o scelti o esclusi. Non è così insolita per un educatore l’esperienza di una conversazione con un adolescente o giovane risoltasi in un monologo accompagnato al massimo da monosillabi.
Come si inizia una conversazione? Come si gestisce una conversazione?…
Nella cultura biblica è Dio che inizia la conversazione.
«Come parla, allora, Dio con il suo popolo?» si è chiesto don Forlai.
«Ascoltando!»
E ha proseguito: «Dio ascolta il grido del popolo, prova compassione per l’uomo e invece di proporre soluzioni, innesca un processo di liberazione di se stesso, di apertura. Man mano che ascolta si fa conoscere, manifesta la sua compassione, la sua commozione, la sua tenerezza, anche a costo di un alto rischio, quello di non essere capito, di essere giudicato, rifiutato, di non essere amato».
«Ascoltare non è una tecnica, è una spogliazione, richiede l’umiltà, perché se l’empatia è un presupposto, la conversazione vera è dal cuore, dalla condivisione dello stesso combattimento spirituale», ha poi precisato il relatore.
E a conclusione ha citato l’esperienza dei padri del deserto. Le guide spirituali nella vita eremitica del deserto venivano scelte tra i monaci che avevano vissuto a lungo la lotta spirituale, perché le loro parole nascevano dal cuore e non dal desiderio di essere persuasivi ed efficaci con l’interlocutore.
(*) Abbiamo scelto di pubblicare alcune risonanze al Convegno del Claretianum non solo perchè il tema ci interessa e coinvolge come consacrate, ma anche per una continuità e completezza al cammino fatto dal blog insieme con la Chiesa durante la celebrazione del Sinodo sui giovani. Infatti quello de «I giovani nella vita consacrata» è stato un aspetto un po’ «trascurato» nei vari post-testimonianza.