Andare e Stare: due verbi nel DNA delle Figlie dell’Oratorio

Non è per fare dietrologia, ma per capire come il carisma originario si è via via attualizzato, che ripercorriamo a grandi linee la nostra storia apostolica. Essa più che da imprese gloriose è segnata da una caratteristica costante e immutabile nel tempo: stare in mezzo alla gioventù «abbandonata». Uno stare fisico senza barriere e un mettersi dalla parte delle giovani senza sovrastrutture che si è manifestato fondamentalmente nell’accoglienza, secondo le sfaccettature che i tempi hanno richiesto ed evidenziato. Lo stato di «abbandono», connotazione che accompagnava fin dalle prime Regole la parola gioventù, e che ci ha interpellate nel corso di quasi un secolo e mezzo di vita, non è da intendersi  in senso esclusivamente economico, ma riguardava situazioni comuni e diffuse, domestiche, quasi ordinarie, una condizione in cui semplicemente non era primaria la cura della formazione umana e cristiana. Successivamente questo stato di abbandono è stato individuato e preso in carico dalle nostre opere in tante situazioni di abbandoni cercati, subiti, imposti a secondo delle convergenze sociali e storiche.

Agli inizi della fondazione le attività svolte a favore della gioventù erano legate al contesto pastorale, poi si sono sviluppate seguendo l’evoluzione socio-culturale ed ecclesiale. Dapprima si è trattato di attività semplici e quasi domestiche, quindi via via più complesse e istituzionali, fino ad arrivare agli ultimi decenni con attività nuovamente e prevalentemente pastorali. Le strutture non hanno costituito il luogo privilegiato della nostra presenza tra le giovani, ma anche dove per necessità esistevano, la preminenza è sempre stata data alle relazioni.

Per la gioventù che la pastorale parrocchiale non curava, si attivarono nella casa delle suore l’oratorio femminile festivo, insieme alla catechesi e alle associazioni cattoliche, la scuola di lavoro o di ricamo, il doposcuola. Per le giovani inserite nelle fabbrica nacquero i Ritiri per le Operaie e la Lega delle Operaie ad essa connessa. Nel primo dopoguerra, come nel corso della seconda guerra e negli anni successivi l’accoglienza si occupò della gioventù orfana o senza famiglia, negli educandati. In seguito al boom economico degli anni sessanta e alla nascita dei posti di  lavoro concentrati nei grandi centri urbani, fino agli anni in cui gli studi superiori portavano le ragazze nelle città, ci fu l’attivazione di pensionati, collegi e alloggi per le giovani.

Accanto e insieme a queste forme è stato sempre presente, o come prioritario o in parallelo o integrato,  l’oratorio femminile parrocchiale, sia come luogo di socializzazione attraverso il gioco, sia come occasione di promozione umana e formazione cristiana.

L’accoglienza attuata da noi figlie dell’oratorio non ha mai avuto una impronta assistenziale ma familiare: le relazioni erano circolari piuttosto che dall’alto al basso, e accanto al gesto di attenzione al bisogno fisico, intellettivo e di affetto verso la ragazza, non è mai mancata la proposta cristiana, o meglio, i gesti erano impregnati di vangelo.

Oggi, il contesto sociale ed ecclesiale è radicalmente cambiato anche solo rispetto a dieci anni fa. Sembra che la gioventù si sia allontanata dalla Chiesa, ma forse anche la Chiesa si è allontanata da loro, a motivo del linguaggio, delle proposte e delle modalità di approccio obsolete e anacronistiche.

Per questo risuona sempre attuale l’invito di san Vincenzo: «La via è aperta: bisogna andare» verso i giovani, oggi come ieri sempre bisognosi, per stare in mezzo a loro e costruire relazioni superando la timidezza educativa e apostolica, che ha colpito un po’ tutte noi. Il Sinodo che si sta svolgendo in questi giorni può offrirci elementi di luce importanti.

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