La vocazione primordiale dell’uomo
La cura dei fedeli, le frequenti predicazioni fuori parrocchia, l’impegno assiduo nel seguire la fondazione dell’Istituto potevano lasciare tempo libero a don Vincenzo per coltivare qualche hobby, per dedicarsi a qualche attività che lo aiutasse a rilassarsi?
Non aveva l’abitudine di concedersi una vacanza, gli sembrava di «andare a bere aria», diceva; era un lettore assiduo ma non un topo di biblioteca; non frequentava circoli culturali o ricreativi se si esclude il campo di bocce della parrocchia e solo sporadicamente; non andava a teatro, anche se l’argomento lo aveva interessato; camminava molto, ma per visitare le cascine lontane dalla parrocchia.
Qua e là spuntano nella sua vita piccoli episodi, riportati non come fatti isolati, ma di routine, che aprono una prospettiva un po’ sconosciuta su don Vincenzo.
Quando la primavera anche se acerba, incominciava a dare segnali di risveglio, don Vincenzo, se non aveva nulla di urgente, si concedeva qualche ora di contatto con la terra vangando l’orto della canonica soprattutto per sgranchirsi, e per poter vedere da vicino il miracolo della natura che riprendeva un nuovo ciclo di vita. Mentre con energia infilava la lama della vanga nella terra ancora dura per le persistenti gelate del lungo inverno avvertiva che questo esercizio lo riportava alle origini dell’umanità quando Dio aveva affidato all’uomo il giardino dell’Eden da coltivare. I passanti vedendolo si chiedevano se era proprio il parroco, e, quando i più arditi gli rivolgevano la parola, don Vincenzo rispondeva con un cenno e con una espressione di sorpresa per la meraviglia dell’interlocutore. È vero, poteva chiederlo ai contadini che abitavano nello stesso cortile, ma per lui era un momento importante.
Don Vincenzo dissodava la terra e potava la vite, una piccola pergola che cresceva di fianco alla porta che si affacciava sul retro della canonica. Non dava molta uva, ma sufficiente perché, quando era matura, richiamasse l’attenzione dei ladruncoli. Lo faceva per rilassarsi, pensavano i suoi confratelli; lui viveva in quei momenti la vocazione primordiale dell’uomo. Tra i lavori manuali, quello legato alla terra, lo metteva, infatti, più direttamente in relazione con Dio, non perché in quei frangenti pregasse o pensasse a Lui, ma semplicemente perché in quei gesti millenari nella storia dell’umanità, tutto il contesto si dissolveva e ritornava al contatto diretto, essenziale, personale con Dio creatore: viveva l’obbedienza al comandamento delle origini.
Anche in casa si prestava per piccoli lavori domestici quando la domestica era assente o malata, come lavare i piatti e persino rammendare i pantaloni. Cose comuni nella vita anche se diventavano straordinarie perché a farle era un uomo e soprattutto un prete che le categorie del tempo volevano escluso da ogni attività manuale e più ancora se di competenza femminile. Spaccava la legna per la casa e per le suore del paese. Nel cortile, infatti, i contadini portavano grossi ceppi, ma occorreva sminuzzarli anche solo grossolanamente per renderli utilizzabili nel camino. Accetta e cuneo, e tanta forza erano gli strumenti in dispensabili. Come un vigile padrone di casa preparava le scorte per l’inverno.
Ostentazione? Umiltà? Taccagneria, come qualcuno sosteneva? E perché non sana aderenza alla realtà umana come Dio l’aveva progettata?
Essere sacerdote non l’aveva distratto dalla sua vocazione primaria quella di aver ricevuto in consegna la creazione direttamente da Dio. Più era uomo più sentiva di poter essere sacerdote, cioè colui che consacra a Dio tutta la creazione, colui che ogni giorno gli offre i frutti della terra e del lavoro umano e che lo ringrazia perché riconosce che Dio ha fatto bene ogni cosa.