Io sono una missionaria?
Echi da Carcelen Bajo
Nel messaggio della giornata missionaria mondiale 2017 incontriamo alcune provocazioni di papa Francesco:
«Siamo invitati a porci alcune domande che toccano la nostra stessa identità cristiana e le nostre responsabilità di credenti.
Qual è il fondamento della missione?
Qual è il cuore della missione?
Quali sono gli atteggiamenti vitali della missione?».
Domande che mi interpellano personalmente.
Per la prima volta mi trovo a vivere la giornata missionaria mondiale in una nazione che non è la mia. Il mio «VISTO» (il documento che permette di soggiornare in un paese straniero) è apposta per i «missionari», persone che da un altro stato vengono a collaborare con la chiesa locale. Ma basta questo per poter dire di essere missionari? È sufficiente vivere all’estero e aver scritto «misionera» sui documenti?
Spesso, in questi primi mesi da straniera, mi sono posta, in altre forme, le stesse domande che formula il papa nel suo messaggio.
Qual è il senso del mio essere qui?
Cosa significa il mandato evangelico «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura»?
Qual è questo «annuncio»? E come posso viverlo?
Nel cercare le risposte, mi incontro e mi scontro con tante situazioni che fanno crollare (grazie a Dio!) il cliché del missionario che arriva e porta la «salvezza» dove prima non c’era nulla; circostanze vissute in prima persona che fanno emergere tutta la mia piccolezza e la mia insufficienza.
Il mio essere qui infatti non cambia le sorti di nessuno, se non le mie. La mia presenza non «salva» nessuno, gli abitanti di Carcelen Bajo proseguono la loro vita tale e quale a prima, con le loro gioie e le loro sofferenze che io non aumento o non allevo di una virgola. E oltretutto, quello che (ora) posso fare non consiste nell’offrire qualcosa a qualcuno, né economicamente, né spiritualmente, né in altro modo. Sono io piuttosto che, come una neonata, ho bisogno di tutto. Sono io che devo conoscere, imparare e crescere ancora tanto e che più che dare agli altri, sta ricevendo: la loro accoglienza, la loro comprensione delle mie fatiche a inserirmi in una realtà nuova, la loro disponibilità ad aiutarmi, la loro vicinanza.
E allora? È missione anche questa? In cosa consiste la missione? Io sono una missionaria? Su cosa si fonda, quali motivazioni reggono il mio vivere qui?
Le domande anziché diminuire aumentano. E non trovo le risposte in modo automatico. Mi è necessario scavare molto, scendere in profondità nel mio cuore. Ogni risposta che odora di «frase fatta» non mi soddisfa e non mi tiene in piedi. E allora scavo, scavo, scavo…
E mi incontro con l’Amore. L’Amore che riempie il cuore, che lo scioglie dai lacci della paura di non valere, di essere insignificante, di non appartenere a nessuno; l’Amore che libera dalla frenesia di riempirsi di qualunque cosa pur di mettere a tacere il vuoto che urla dentro; l’Amore che rivela che pensare solo a se stessi non è la via per essere felici e che l’unico cammino che conduce alla gioia non è salire ma scendere. L’Amore che fa vedere il vero volto di chi sta accanto: non un nemico da cui difendersi ma un fratello, uno che ci appartiene.
Scendo, e intuisco che «essere missionari» non è questione di cosa si fa ma di che cuore si ha. Perché, come dice San Paolo nel cap. 13 della prima lettera ai Corinzi, si possono fare opere grandi, ma con un cuore piccolo, non evangelizzato, che mette sempre al centro il proprio prestigio, la propria figura, la ricerca del successo e dell’approvazione per fuggire dalla propria piccolezza e insufficienza, con cui i poveri invece costringono a misurarti. Missionario non è chi è grande, ricco e autosufficiente e dall’alto si china verso chi sta in basso. Al contrario è chi scende nei suoi abissi e scopre che la sua povertà è il luogo dell’incontro con l’Amore e la gratuità di Dio e che la sua pochezza è lo spazio aperto alla sua vera ricchezza.
Missione è «rinnegare se stessi», smettere di porsi al centro di tutto, anche sotto le belle vesti di generosità e buone azioni. È andare alla periferia del proprio sé, liberi dalla preoccupazione per la propria persona, perché si è incontrato Colui che conta anche i capelli del nostro capo, nutre gli uccelli del cielo e veste i fiori dei campi. Condividere questo incontro è il cuore della missione!
«Dove vai, porti chi sei», diceva qualcuno. Se quello che fai, per quanto bello e «generoso», è mosso dall’orgoglio, dall’invidia, dal paragone per vedere chi è il migliore, dall’egoismo mascherato, questo porterai, ovunque tu vada. Se invece quello che vivi nasce da un cuore libero, pulito, casto e pacificato, questo offrirai e condividerai con chi incontrerai sulla tua strada. A prescindere da ciò che fai. Come diceva Serafino di Sarov: «Trova la pace in te, e migliaia la troveranno intorno a te».
suor Federica Tassi
Nella domenica in cui la Chiesa celebra la “Giornata missionaria mondiale” desidero esprimere la mia gratitudine a tutti coloro, sicuramente le mie consorelle, che a vario titolo, in terre diverse, in culture diverse, con fatiche diverse, a volte drammatiche, sono stati inviati a testimoniare la bellezza dell’incontro con il Signore Gesù, il padrone della messe. Forse è per questo che si parte, per condividere un dono ricevuto.