Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace…
Nello scorrere dei mesi successivi sentivo le forze diminuire perché i dolori di sempre si facevano più forti e insistenti. Continuavo ad essere coinvolto nella vita delle suore, anche se dedicavo meno tempo alla corrispondenza e ridussi al massimo i viaggi a Lodi.
Il motivo principale che mi attirava a Casa Madre, nonostante sarebbe stato più utile alla mia salute rimanere tranquillo nella mia canonica, era la presenza del Noviziato. Alle Novizie davo il mio tempo migliore, le mie parole più convinte e convincenti, le mie preghiere, l’offerta delle mie fatiche e sofferenze. Quando ero in mezzo a loro ero come contagiato dalla loro esuberante giovinezza nonostante la disciplina del Noviziato cercasse in ogni modo di moderarne gli entusiasmi: non sentivo i dolori, la fatica, il tempo trascorreva troppo velocemente. Era come se mi indicassero la strada che si apriva davanti a miei occhi: ora potevo andarmene in pace. Soprattutto queste giovani erano i germogli che lasciavano sperare che il piccolo alberello poteva diventare un albero robusto e rigoglioso, erano la strada che si apriva davanti al cammino dell’Istituto per poter muovere i suoi passi ovunque lo Spirito e i bisogni della Chiesa e della gioventù lo chiamasse.
Era giunta per me l’ora del congedo.
Visitai alla fine di ottobre del 1917 la comunità di Casa Madre e poiché eravamo nella Novena dei Morti, salutando le suore con un presagio in cuore che forse sarebbe stata l’ultima volta, raccomandai loro di far celebrare per me molte messe quando avrebbero ricevuto la notizia della mia morte. Protestarono alle mie parole. Ma aggiunsi di non dimenticarsi di pregare per me, perché di solito si prega poco per i sacerdoti defunti.
Lasciai la comunità Casa Madre con la consapevolezza che stavo per uscire definitivamente da questa vicenda terrena nella quale lo Spirito, attraverso la mia semplice persona, forse anche un po’ zotica come diceva di me il mio Vescovo, aveva potuto accendere nuove lingue di fuoco, spalancare nuove porte e far parlare a una schiera di nuove persone una lingua universale, quella dell’amore.
Mentre mi incamminavo lentamente verso la stazione, avvolto nella nebbia, pregai il Te Deum: era la preghiera che in quel momento meglio interpretava nella fede il significato della conclusione della mia esistenza.