Il Decreto di Lode
Volli trascorrere la mia anzianità in parrocchia, anche se le suore mi avevano preparato una cameretta a Casa Madre, a Lodi, dove passare gli ultimi anni, accudito dalle loro cure e circondato dal loro affetto. Le energie che mi rimanevano le volli spendere per i miei parrocchiani, ma non interruppi di visitare le comunità, più frequentemente quella di Lodi. Ledovina e altre suore che l’aiutavano avevano dimostrato di saper guidare l’Istituto sia spiritualmente che dal punto di vista apostolico e amministrativo. Mi sembrava che in tutti i membri fosse cresciuta la percezione di appartenere a una famiglia, che avessero acquisito con chiarezza e unanimemente la finalità dell’Istituto sia spirituale che pastorale. Non mi sentivo inutile, ma capivo che la mia missione era compiuta.
Nel maggio del 1915 arrivò da Roma il Decreto di Lode, il primo passo verso l’approvazione definitiva. Quando Ledovina mi mostrò il famoso Libro Rosso, che conteneva la risposta della Santa Sede, non credevo ai miei occhi. Non ci conoscevano, non eravamo diffusi sul territorio nazionale, non avevamo un cardinale protettore, eppure questa risposta giunse in tempi significativamente più brevi rispetto ad altre che avevano avuto bisogno di attese ben più lunghe e sofferte. Le parole del prelato, a cui le suore consegnarono tutto il carteggio, non furono di circostanza ma profetiche, quando disse che una tale forma di vita religiosa e la modalità di collaborazione con i sacerdoti erano buone credenziali per una approvazione celere.
Le Suore vollero dare pubblicità a questo Documento Pontificio ed organizzarono un evento a cui invitarono vescovi, sacerdoti, religiosi, benefattori, amici e tutte le suore che potevano assentarsi dalle Case. Naturalmente ero presente anch’io, ma poiché non ero io il festeggiato, mi confusi in mezzo ai miei confratelli sacerdoti e ai ministranti, lasciando ai Prelati il posto di onore. Io ero solo un servitore, un vignaiolo a cui il Signore aveva affidato la vigna da coltivare perché desse frutto. Le suore hanno considerato questo mio modo di partecipare alla festa come un atto eroico di umiltà, ma per me era solo il mio modo per onorare la verità: io ero semplicemente un servitore. Succedeva la stessa cosa quando i contadini finivano la vendemmia: facevano festa non perché erano stati bravi, ma perché il raccolto era stato abbondante e buono, premessa per poter riempire la cantina di vino nuovo e rallegrare le loro mense.
Bello questo atteggiamento di don Vincenzo. C’è molto da imparare dentro e fuori la Chiesa da questo stile di vita. Molti anni fa mia nonna mi disse: “Ricordati che la Chiesa non è dei preti, la Chiesa è di Cristo. Lui la guida.” Ieri Papa Francesco in Colombia, davanti al clero riunito, ha detto: “la Chiesa non è nostra, è di Dio. Per tutti c’è posto”.
Don Vincenzo non aveva bisogno di urlare al mondo che l’istituto delle Figlie dell’oratorio era una sua creatura. Gli bastava essere stato uno strumento nelle mani di Dio. Grazie don Vincenzo.
“Io ero semplicemente un servitore….” la consapevolezza di sapersi strumenti, riconoscersi “al servizio di…” . Grazie san Vincenzo per questo tuo cuore libero, per questa tua vita in profonda obbedienza al vangelo e per il tuo essere un uomo vero, umile!