La mia relazione con le suore…

Dagli inizi fino alla mia morte ho incontrato personalmente tutte le giovani o meno giovani che sono entrate nell’Istituto, quelle che vi sono rimaste e quelle che per diversi motivi sono rientrate nelle loro famiglie.

Fino al 1901 il discernimento vocazionale era mio compito e responsabilità; in seguito l’ho condiviso soprattutto con Ledovina Scaglioni ma anche con le «superiore» delle comunità.

Quante suore ho conosciuto? Non ho mai avuto la preoccupazione di contarle, però per soddisfare la curiosità dei tempi attuali, posso dire che ne accolsi più di centocinquanta nell’Istituto. Non le consideravo la mia corona, ma le apostole che il Signore aveva suscitato per attuare quello che lui mi aveva ispirato.

Alcune le chiamavo col cognome, altre col solo nome, altre con dei nomignoli familiari, ma questo non toglieva né la confidenza, né il rispetto reciproco.

Provenivano da diversi ceti sociali, prevalentemente da famiglie contadine, ma non mancarono giovani che prima di entrare avevano già avevano compiuto gli studi superiori. Alcune venivano a far parte della nuova fondazione con il benestare dei familiari, altre invece lasciavano i genitori nel dolore per il vuoto che si creava nella casa. All’interno delle piccole comunità non c’erano distinzioni o privilegi, tutte svolgevano la propria mansione in parrocchia e in casa come in una famiglia. Erano molto motivate per la vita apostolica, sostenute da zelo e creatività, ed erano pure impegnate a progredire nella consacrazione al Signore. Gli aspetti un po’più fragili sono stati, almeno negli anni in cui le ho seguite, la vita comunitaria e l’obbedienza, a motivo dei quali suggerivo a Ledovina di comporre le comunità tenendo conto dei caratteri, delle qualità e delle debolezze delle singole persone per poter creare il più possibile un clima di complementarietà.

Godevo della confidenza di tutte per cui per mantenere con loro il contatto continuo potevano bastare anche solo una biglietto scritto o una visita veloce. Mi faceva un grandissimo piacere ricevere le loro lettere in cui raccontavano di sé, della comunità e delle attività che svolgevano e io godevo per le buone notizie. Era una gioia che scaldava l’anima e il cuore e mi dava anche serenità.

Non avevo su di loro alcun potere costituito, nemmeno quello di confessore, però avevo guadagnato la loro fiducia e anche il loro affetto. Da parte mia mi prendevo la libertà di dire  quello che sapevo poteva aiutarle a servire meglio il Signore, in  comunità e nell’apostolato, anche se per qualcuna a volte poteva sembrare che le servissi un «caffè amaro senza zucchero» o dessi loro una strigliatine come ai puledri scalpitanti. Mi facevano sentire il loro affetto invitandomi nelle comunità, tenendomi aggiornato sulle iniziative, e anche inviandomi ogni tanto datteri freschi da Genova in pieno inverno o qualche indumento caldo sferruzzato da qualcuna di loro. Le più vicine venivano nella mia canonica e aiutavano la perpetua, nelle pulizie della casa o per organizzare qualche pranzo per le autorità. Ho coltivato sempre con loro relazioni semplici e paterne perché volevo che le vivessero con lo stesso stile all’interno delle comunità.

 

Rispondi

  1. Grazie san Vincenzo per questo tuo modo discreto, semplice, schietto di accompagnare, di vigilare, di guidare…. Donaci la grazia di essere donne che sanno camminare accanto, che sanno ascoltare e consigliare con dolcezza e fermezza.