Una forte impressione
Iniziai il ministero, subito dopo l’ordinazione, in piccole parrocchie del circondario di Pizzighettone, mio paese di origine. In genere la popolazione era buona, per lo più praticante, ma mi resi conto che mancava alla partecipazione una fascia di fedeli: la gioventù. Si sa che questa è una età in cui tutto è in fieri e nulla è certo e definitivo. La situazione sociale stava dando man forte a questa instabilità, perché la nuova tendenza del lavoro o, come si dice tecnicamente, la rivoluzione industriale disgregava le famiglie allontanando le persone dalle campagne, dove ugualmente alcuni ancora risiedevano e parzialmente vi lavoravano, mentre altri si spostavano nei vicini centri urbani o in quelli interessati dall’insediamento delle fabbriche.
In questo contesto il disorientamento maggiore lo vivevano i giovani che perdevano i riferimenti quotidiani dei genitori e non godevano più del clima di condivisione e coinvolgimento tipico della famiglia contadina.
Anche alla domenica, che era il giorno in cui quasi naturalmente la chiesa e gli spazi ad essa adiacenti diventavano il luogo di aggregazione per tutti, le fila delle ragazze e dei ragazzi incominciavano ad assottigliarsi. I genitori avevano percepito questo inizio di sfilacciamento ma presi dai grossi cambi socio-economici impiegavano poche risorse per arginarlo, meno ancora per risolverlo.
A Regona, dove come parroco, potevo muovermi senza condizionamenti di nessuna natura se non la dispersione della comunità a causa della diffusione di idee anticlericali, incominciai la mia opera proprio dai giovani. Cercai di offrire delle proposte adatte alla loro sensibilità e ai loro gusti. Mi sentivo a mio agio più tra i ragazzi che le ragazze, non perché vedessi nelle giovani un pericolo per me o per loro, ma perché non erano ancora maturi i tempi per la promiscuità, se pure molto corretta. C’era però un fenomeno particolare: le ragazze erano molto reticenti di fronte a qualsiasi invito, sembrava quasi che invece del solito e prevedibile raffreddamento verso la chiesa e le sue proposte, fosse nata in loro una vera e propria avversione.
Inizialmente attribuivo questi fatti alle conseguenze della campagna anticlericale portata avanti per anni a Regona, ma quando incomincia a frequentare altre parrocchie del circondario per la predicazione o per la collaborazione nelle confessioni, mi resi conto che questo fenomeno era un po’ comune.
Capii piano piano che l’avversione delle giovani era più una moda che una convinzione e che, se si trovava la sintonizzazione giusta, forse si sarebbero lasciate coinvolgere.
Mi impressionavano i gruppi di ragazze che la domenica pomeriggio passeggiavano davanti alla chiesa con la stessa indifferenza con cui si passa davanti ad un edificio anonimo e disabitato.
Di più, mi dispiaceva vederle conversare civettuosamente e, Dio non voglia, ambiguamente, sulle porte di casa con i giovanotti, in un gioco di sguardi, parole, ammiccamenti, vecchi quanto il mondo, ma rischiosi perché non illuminati dal consiglio e dall’esperienza degli adulti. Mi rattristavano ancora di più le feste che si facevano nelle case di qualche persona compiacente, in cui alla allegria si mescolavano abbondantemente e pericolosamente il vizio e la trasgressione, soprattutto per chi ne veniva a contatto per la prima volta. Non si trattava di trasformare le ragazze in novizie, no non era questo a cui pensavo quando le osservavo, ma di poter offrire loro una alternativa impregnata di valori e di esperienze cristiane.
Una domanda mi inquietava: come poter avere adulti cristiani domani se i giovani di oggi si allontanano? Si trattava di riuscire a coinvolgerle senza che avessero la percezione di una imposizione, dalla quale prima o poi si sarebbero sottratte.