In cordata
Il primo paragrafo del terzo capitolo della Evangelii Gaudium evidenzia che tutto il Popolo di Dio annuncia il Vangelo. Questa non è una novità introdotta da papa Francesco, ma frutto del lavoro conciliare di 50 anni fa, in particolare nella costituzione dogmatica Lumen Gentium:
«Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi. Ha scelto di convocarli come popolo e non come esseri isolati (LG 9). Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze» (n. 113).
Il rimando è dunque all’insieme, al noi e non all’io. Se è vero che nessuno si salva da solo, lo è altrettanto che nessuno da solo può essere segno e sacramento di salvezza, ma lo si è nella misura in cui si è chiesa, popolo di Dio, comunità. L’annuncio della salvezza non è iniziativa meritoria di qualche singola persona isolata, ma azione ecclesiale, di popolo, di Vangelo accolto e condiviso, non trattenuto per sé come tesoro da custodire gelosamente.
«Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana. Questo popolo che Dio si è scelto e convocato è la Chiesa. Gesù non dice agli Apostoli di formare un gruppo esclusivo, un gruppo di élite. Gesù dice: “Andate e fate discepoli tutti i popoli”» (n. 113).
Quanto bisogno abbiamo di riscoprire che siamo chiamati a camminare uniti, insieme, e non a fare scalate solitarie verso il cielo. Il primo segno di credibilità dei cristiani non è la quantità di cose buone che ciascuno di loro riesce a fare singolarmente, ma il farle insieme, in comunione, nella consapevolezza di essere figli dello stesso Padre e dunque di non poter mettere da parte nessuno in nome dell’efficienza e della «produttività», anche religiosa.
Pare di cogliere tra le righe il richiamo profetico di San Giovanni Paolo II a «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia».
Che grande segnale anche per la vita religiosa a recuperare la bellezza della vita fraterna, a fare delle nostre comunità i luoghi in cui è possibile assaporare la bellezza delle relazioni vissute nella libertà donata dal Vangelo! La comunione, l’essere popolo di Dio, è il farmaco che il Signore ci dona contro le minacce della solitudine e dell’isolamento che tanto spaventano oggi e che creano disagio, non senso e malessere.
In particolare, come Figlie dell’Oratorio, possiamo leggere in questo richiamo all’essere popolo, il richiamo a rispolverare un aspetto carismatico fondamentale tramandatoci da san Vincenzo: lo spirito di famiglia.
La famiglia fa riferimento a uno stile relazionale improntato sull’amore, l’affetto, la fiducia e la confidenza, a un ambiente in cui si può stare senza maschere, con libertà e schiettezza, senza il timore di essere esclusi o messi da parte, in cui è concesso «il lusso» di essere se stessi, sapendo che qualsiasi sbaglio la persona commetta, resta sempre qualcuno che mi appartiene. È il luogo per antonomasia in cui ci si fa carico gli uni degli altri, in cui nessuno viaggia da solo, dove si è sostenuti da genitori, fratelli e sorelle. Proprio come dice papa Francesco in Evangelii Gaudium al n. 114:
«La Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo».
Avanti allora su questa strada, in cui l’annuncio della Buona Notizia non passa dai proclami e dai grandi annunci solitari. Se in uno stadio, in una notte buia, una persona accende una luce, si intravvede appena, ma se le migliaia di spettatori accendono ciascuno la propria luce, lo stadio si illumina. Facciamo che la nostra vita sia una luce di Cristo; insieme, in cordata, porteremo la luce del Vangelo all’intera realtà.
La vita religiosa si è sempre pregiata di essere l’esperta in comunione. Ma la storia fa dei distinguo chiarificatori. La dimensione comunitaria appartiene alla Chiesa ( ecclesìa/assemblea!!!) e non solo a un gruppo.
Leggevo, infatti, ultimamente che la confusione tra convivenza e vita di comunione è iniziata quando Pacomio radunò i monaci. E dal 1500 in poi la nascita degli istituti religiosi, come attenzione ai bisogni della società, di fatto ha costruito comunità funzionali ad una attività apostolica, dove la maggior efficienza apostolica compensava la mancanza di comportamenti relazionali. Oggi questo schema non regge più per le riduzioni che sono sotto gli occhi di tutti. Le comunità, senza la “verve” apostolica in declino da alcuni anni, sono divenute costituzionalmente deboli e rischiano di implodere in tensioni nate sul “nulla”.
La comunità di fede, nella quale siamo e viviamo per vocazione e scelta di vita, è fondata sulla circolarità e sulla fecondità della Parola di Dio, sul servizio reciproco, sull’uscita da sé anche solo per regalare un sorriso, suggerisce papa Francesco. Diceva bene e argutamente padre Silvano Fausti: “Finchè si litiga su chi deve lavare i piatti c’è comunità, ma questa muore quando ci si chiede a chi tocca”.
Quando noi F.d.O. recitiamo la preghiera a San Vincenzo Grossi diciamo così: “concedi per sua intercessione pace al mondo … “spirito di comunione” alle parrocchie”. Stasera questa richiesta di spirito di comunione mi ha fatto un pò riflettere e mi son detta: “forse dovremmo chiederla anche per le nostre comunità”. Noi alcune cose le diamo per scontate, ma nella vita quotidiana non è sempre così! Molte volte viviamo l’individualismo, indipendenti l’una dall’altra. La L.G. al n. 4 dice:
” Nessuna persona umana può crescere nell’isolamento, indipendentemente dagli altri. La persona umana cerca di realizzarsi nella comunione e nell’interdipendenza”. Se pensiamo poi che, come persone consacrate ci si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come “testimoni e artefici di quel ‘progetto di comunione’ che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio”, dovremmo veramente invocare costantemente lo Spirito che ci faccia partecipi di questa spiritualità . Certo la spiritualità di comunione richiede persone spirituali formate interiormente da Dio, dalla comunione amorosa e misericordiosa con Lui e da comunità mature, comunità formate da persone “non già sante”, ma capaci di decentrarsi di liberarsi progressivamente dal bisogno di mettersi al centro di tutto e di possedere l’altro e dalla paura di donarsi ai fratelli; persone che imparano piuttosto ad amare come Cristo ci ha amate, con quell’amore effuso nei nostri cuori e che ci rende capaci di dimenticarci e di donarci come ha fatto il nostro Signore e Maestro. La comunione non esiste senza l’oblatività, e noi Figlie dell’Oratorio questa dimensione l’abbiamo ricevuta in dono e in eredità dal nostro San Vincenzo Grossi per cui non possiamo vivere senza questo respiro. Aiutaci San Vincenzo ad essere “costruttori e non solo consumatori di comunità”, ad essere responsabili l’una della crescita dell’altra, ad essere aperte e disponibili a ricevere l’una il dono dell’altra, capaci d’aiutare ed essere aiutate, di sostituire ed essere sostituite.
Solo così potremo irradiare luce e ricevere luce.