Capacità di fare «team», ovvero il carisma di fondazione
La teologia della vita consacrata definisce carisma di fondazione il dono di riunire intorno ad una intuizione o carisma che lo Spirito ha elargito ad una persona particolare, un gruppo di persone non solo per farne degli adepti o dei proseliti ma per costituire con essi una comunità, una famiglia.
Per don Vincenzo scoprirsi depositario di un carisma, quale quello di fondatore, non è stato una folgorazione, bensì un lungo itinerario che nel compiersi si è intrecciato col cammino di altre persone. È lui stesso che racconta della significatività di alcune donne che seguiva nella confessione, con le quali ha condiviso l’urgenza di «fare qualcosa a favore della gioventù femminile e di essersi trovato in sintonia con esse. La decisione iniziale di non strutturare alcuna iniziativa, né di darvi ufficialità comportò per molti anni sincera collaborazione, impose la libertà da qualsiasi interesse e una comunicazione costante e leale con quante, appunto, si raccoglievano intorno al progetto da lui abbozzato.
Alcuni dati ambientali ci aiutano a comprendere la relazione di don Vincenzo con il primo gruppo di suore: non si considerava l’unico e l’indiscusso riferimento, ma parte della squadra. Non scelse di andare a vivere con le prime suore, né le chiamò nella sua parrocchia, neppure solo ad experimentum, né pensò di chiedere al Vescovo di poter svolgere una attività che gli consentisse di essere a tempo pieno fondatore. Questa sua scelta è stata solitamente interpretata come una questione di prudenza. In realtà può significare che egli si considerava il «suggeritore» e il facilitatore della fondazione, il mediatore di un progetto che non era suo ma veniva da Dio e di cui, insieme alle prime suore, andava man mano precisandone i contorni. Non mise a disposizione delle primissime comunità edifici di sua proprietà o da lui acquistati a questo scopo, ma invitò le prime «suore» a costituire nelle loro case i primi nuclei. Fin dagli inizi scelse e indicò la «superiora» quando ancora non c’era neppure la richiesta dell’autorizzazione diocesana. Figura di autorità che non lo faceva dispensare dal dare direttive, dal suggerire, anche dal dissentire su alcune scelte o decisioni.
Angela Cippelletti, Giuseppina Gioggi, Maria Caccialanza, Ledovina Scaglioni, Taddea Tarozzi, Luigia Cipriani, Angela Paternieri hanno costituito lo staff iniziale: con loro scopriva man mano la modalità per organizzare la vita comunitaria, per stendere una Regola comune, per scegliere le parrocchie e i servizi da svolgere in esse. Una di loro, Angela Cippelletti aveva preso tanto sul serio la cosa, che quando don Vincenzo fu trasferito per ministero lontano dai luoghi delle prime fondazioni, lei, travisando la realtà, si arrogò arbitrariamente il titolo e il ruolo di fondatrice, non solo perché proprietaria dell’edificio in cui viveva la prima comunità, ma anche perché si riteneva persona di riferimento per le comunità vicine. Attribuzione di un ruolo risolta ben presto con un intervento autorevole di don Vincenzo.
C’è una fitta corrispondenza che testimonia come don Vincenzo condividesse ogni questione con queste strette collaboratrici o volesse essere informato da loro su ogni decisione, dalla apertura di case, all’accoglienza di nuove candidate, dai trasferimenti delle suore alla organizzazione delle comunità e si prendeva la libertà, con tutta la sua autorevolezza, di dare un proprio parere. Il primo approccio con i Vescovi e i parroci che domandavano la presenza delle suore lo teneva lui, poi lasciava alle sue collaboratrici il compito di proseguire e di coltivare i rapporti, anche con gli Enti e le amministrazioni pubbliche. Non lo faceva per umiltà, come spesso viene interpretata la sua espressione «il vostro istituto», bensì nella consapevolezza di averne promosso la fondazione, ma di non farne parte, né giuridicamente, né fisicamente. Molto semplicemente era come l’anima nel corpo! La documentazione per la prima richiesta di approvazione pontificia, ancora vivente don Vincenzo, non fu fatta a suo nome, ma della Madre generale e nel Decreto di Lode del 1915, lui vivente, non si fa alcun cenno alla sua persona. Forse era previsto dalla prassi, senza alcuna intenzione di sminuire il ruolo del Fondatore! Ruolo che aveva compreso bene Mons Bonomelli il quale nel consegnare personalmente a don Vincenzo l’approvazione diocesana, aveva aggiunto in calce al documento, una calda raccomandazione ai parroci a prendere in considerazione questa forma di vita consacrata.
La Tradizione dell’Istituto, pur ferma nel riconoscere in don Vincenzo «il» fondatore, per molti anni ha parlato di «fondatori» riferendosi oltre che a lui anche a Maria Caccialanza. Successivamente Ledovina Scaglioni, superiora generale per più di mezzo secolo, fu definita dal vescovo di Lodi, mons. Tarcisio Vincenzo Benedetti, nell’omelia funebre, «cofondatrice». Definizioni, queste, che più che voler attribuire ad altre il carisma di fondatore, volevano sottolineare uno stile di collaborazione nato e alimentato dalla capacità di don Vincenzo di fare «team» con il primo gruppo di Figlie dell’Oratorio!