La grandezza di un uomo
Riceviamo e condividiamo alcune suggestioni che la lettura del libro «Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato. La paternità spirituale in don Vincenzo Grossi» di suor Rita Bonfrate ha suscitato in un giovane ex alunno di una nostra scuola primaria (che preferisce rimanere anonimo, pur essendosi firmato in calce allo scritto). Sono considerazioni profonde che sfatano (non era proprio questo lo scopo dell’autrice che si legge nell’introduzione?) l’immagine di un Vincenzo cristallizzata negli aneddoti o nelle sue raccomandazioni, magari le più argute e facili da ricordare, per riscoprirlo uomo di Dio e perciò padre di quanti sono stati affidati a qualunque titolo alle sue cure.
Le suore della scuola che ho frequentato come alunno, lo chiamavano familiarmente «il Fondatore» e solo dopo un po’ di tempo l’ho identificato come «don Vincenzo Grossi». Ci raccontavano gli aneddoti più simpatici ed accattivanti della sua vita, ci distribuivano delle medagliette che ai miei occhi di bambino sembravano d’oro, e, prima di entrare in aula, ci fermavamo davanti ad una sua immagine appesa alla parete dell’atrio per una invocazione veloce. Tutto questo ha alimentato la mia fantasia di fanciullo… al punto che per un po’ di tempo era nato in me il desiderio di diventare prete come lui. Crescendo sono divenuto spensierato e meno riflessivo, temerario e senza obiettivi, se non quello di essere e fare il leader, e pian piano ho relegato don Vincenzo nel… dimenticatoio perché mi appariva troppo serio, troppo mortificato, troppo modesto…, perfino troppo normale.
In occasione della sua canonizzazione, ho ricevuto in dono dalle suore della mia infanzia – che, se pure occasionalmente, frequento per l’affetto e quel senso di nostalgico ricordo che conservo per gli anni della mia fanciullezza vissuti con loro – il libro scritto recentemente da suor Rita Bonfrate su di lui: «Io e i figli che Dio mi ha dato».
Ho appena terminato di leggerlo e mi devo ricredere sull’idea che mi ero fatto di don Vincenzo.
Ho «scoperto» che gli piaceva la vita e ha cercato di viverla in pienezza; che faceva di tutto per essere sempre in compagnia dei ragazzi, amava la loro gioia e sopportava il chiasso indiavolato che facevano senza battere ciglio; lavorava, insegnava, viaggiava e soprattutto piaceva anche a lui «fare il capo». Non solo: lo seppe fare bene, con successo e soprattutto senza darsi delle arie.
Il segreto? L’autrice del libro riesce a metterlo a fuoco, anzi direi che è il tema che sottende tutto il testo. Al centro del suo progetto non c’era lui, ma Dio e gli altri, specialmente i giovani.
Mi sono dedicato a questa lettura quasi centellinando le pagine; ho colto in esse un lavoro di cesellatura sulla vita e l’attività di don Vincenzo. Non racconta nulla che non si conosca già di questo parroco e fondatore, ma l’autrice mette in evidenza l’intreccio armonico di gesti, relazioni, iniziative, fatiche, scelte, quasi sempre molto modeste, tutte architettate dall’amore di Dio. Ho fatto fatica a capire che significato avesse per don Vincenzo «l’amore di Dio» ma avanzando nella lettura ho intuito che per lui Dio era molto importante, l’aveva sempre in mente, gli dedicava tempo ed energie, faceva ciò che sapeva gli interessava, come si fa quando si è intensamente innamorati di una persona. Dio era tutto per lui.
Prima di leggere il libro conoscevo il personaggio di don Vincenzo, adesso conosco la persona di don Vincenzo e mi sono convinto che non sono le imprese che fanno la grandezza di un uomo ma ciò che lo muove e lo sostiene.