Intervista a suor Federica (1)
Ieri sera , durante la veglia missionaria celebrata nel duomo di Lodi, alla presenza dei fedeli della diocesi e di un cospicuo numero di figlie dell’Oratorio, suor Federica ha ricevuto dalle mani del vescovo, mons. Maurizio Malvestiti, il Crocifisso missionario .
La testimonianza di suor Federica pubblicata giorni fa nelle pagine di questo blog ha suscitato tante reazioni, per lo più positive: alcune pubblicate a commento della testimonianza, altre personali, inviate in privato… Tutte espressione di ammirazione e vicinanza, ma anche portatrici di qualche interrogativo. Qualcuno ha riletto l’esperienza di suor Federica facendone un esame di coscienza, perché, diciamocelo apertamente: la lucidità e determinatezza con cui ripete il suo sì all’invito a «lasciare padre, madre, fratelli, sorelle, campi, case…» per seguire Cristo là dove Lui vuole oggi è uno «svegliarino» per le nostre coscienze assopite e avvolte in un imborghesimento che fa avanzare mille scuse e giustificazioni alla nostra «pigrizia».
A noi del blog leggere le riflessioni di suor Federica ha suscitato anche il desiderio di approfondire meglio le sue motivazioni. Abbiamo pensato pertanto di intervistarla ponendole alcune domande che proprio oggi, giornata missionaria mondiale, iniziamo a riportare riservandoci di completarle nei prossimi post. Ascoltiamola.
- Il Papa dall’inizio del suo ministero ha invitato la Chiesa ad «uscire»… La tua partenza per l’Ecuador è per te un «uscire»: da che cosa e verso dove?
A dire il vero quello di «uscire» non è un invito inventato dal Papa. È Gesù stesso che dice ai suoi discepoli: «Andate in tutto il mondo» e Francesco, coi suoi appelli, non fa altro che riportarci all’origine, al Vangelo. Ma tornando alla domanda, partire per l’Ecuador è sicuramente per me un’uscita. Uscita dal «mio» mondo, dalla mia mentalità, dai miei schemi culturali e mentali, dalle mie abitudini e sicurezze, anche dal modo stesso di vivere la fede. Pensando a una partenza, credo sia immediato fare riferimento a questi cambiamenti, evidenti, tangibili, molto concreti.
Ma c’è anche un’altra dimensione dell’uscita, forse più interiore e meno evidente, ed è l’uscire da me stessa, dal mio egoismo, rinunciando (o almeno provarci!) ai miei tentativi di assicurarmi un nido o una tana, un qualsiasi appoggio dove posare il capo, per fondare la mia vita solo su Cristo e sul suo Vangelo e donarmi ai fratelli e alle sorelle che la vita metterà sul mio cammino.
- Prima di diventare suora hai trascorso un periodo, anche se breve, in Ecuador; c’è un filo rosso che unisce quella esperienza missionaria, anche se limitata nel tempo, a quella che stai per iniziare ora?
Sono passati esattamente 20 anni. Era infatti l’ottobre del 1996. Come passa il tempo! Ricordo che in quel periodo ero nella fase del discernimento. Volevo capire cosa fare della mia vita e come poterla vivere in pienezza. Sentivo l’attrazione verso la consacrazione tra le Figlie dell’Oratorio, ma non riuscivo a decidermi e a vincere le mie paure. Avevo bisogno di fare un’esperienza forte, non necessariamente in missione, qualcosa che mi aiutasse a uscire da quello «stallo». E capitò l’occasione. Le suore offrivano la possibilità di trascorrere qualche settimana presso la loro comunità a Pajan, in Ecuador appunto, e io dentro di me sentii che non dovevo lasciarmi scappare questa opportunità, pur non avendo mai avuto particolare desiderio di fare esperienze missionarie. Al rientro, dopo pochi mesi, presi la decisione di entrare nell’istituto di cui ora faccio parte. Diciamo che l’Ecuador segnò allora un prima e un dopo nella mia vita. Tornare là dopo 20 anni è un po’ come un ritorno alle origini, un ricominciare, una nuova partenza, affrontata con una consapevolezza e una maturità diverse.
- I missionari che partono ricevono il «mandato» dalla chiesa locale rappresentata dal Vescovo e viene affidata loro una missione. Tu parti soprattutto con il mandato del tuo Istituto. Vai in una comunità di Figlie dell’Oratorio che opera a Carcelen Bajo (Quito) da 19 anni. Quale è la missione che svolge la comunità in quella chiesa locale e tu che cosa sei chiamata a compiere?
Hai detto bene, parto col mandato della mia famiglia religiosa. Vado come Figlia dell’Oratorio, portando con me il carisma che ci caratterizza e che vuole che la nostra opera sia rivolta alle giovani generazioni, in particolare alla gioventù femminile, nella pastorale ordinaria della parrocchia. Questa è la missione apostolica delle Figlie dell’Oratorio, a prescindere dal luogo in cui si trovano a operare. Questo (il luogo) incide sicuramente sulle modalità di proposte e sullo stile pastorale, ma non sulla finalità, che è e resta quella di annunciare la Buona Notizia dell’essere Figli di Dio alla gioventù.
- Mi facevi notare che nelle costituzioni del tuo Istituto c’è un articolo che esprime questo concetto: la suora, che svolge un servizio apostolico, deve essere considerata dalle altre e lei stessa si deve sentire «mandata» dalla comunità. È chiaro che non parti a titolo personale, tanto meno hai scelto tu la comunità, meno ancora il momento… Come vivi e come ti sembra che le altre suore vivano questa «co-partecipazione», dal momento che materialmente sarai solo tu a prendere l’aereo col solo biglietto di andata?
Beh… credo che come in ogni scelta che richiede il coinvolgimento personale, ci sia di fatto una solitudine che va assunta e «portata» e fatta propria, ma, come dice qualcuno, è una «solitudine abitata». Innanzitutto abitata da Dio, dal mio appartenere a Lui. E questo dà forza e fiducia. Ma abitata anche dal sostegno e dalla vicinanza di tante persone che mi vogliono bene e che mi stanno mostrando in mille modi il loro affetto e la loro amicizia, tra cui ovviamente anche le mie sorelle Figlie dell’Oratorio, che mi stanno sorreggendo con la loro preghiera. So per certo che le suore più anziane o più sofferenti fisicamente vivono in modo forte la dimensione dell’offerta. Loro saranno con me a Quito, pur restando nelle loro stanze in infermeria o nelle comunità di riposo. Credo però che ci sia bisogno per noi Figlie dell’Oratorio di ridurre le distanze tra le comunità in Italia e quelle oltre oceano. Non mi riferisco alle distanze geografiche, che resteranno immutate, piuttosto a quelle affettive e relazionali. Oggi la tecnologia permette cose impensate fino a pochi anni fa e quindi possiamo e dobbiamo approfittarne per creare una maggiore vicinanza tra le nostre comunità.
“Vado come Figlia dell’Oratorio…..” Nel rito della professione perpetua, la superiora generale dopo aver ricevuto i voti della professa dice questa frase: “D’ora in poi tutto tra noi é in comune….” Mentre leggevo, mi risuonavano queste parole: tutto… la missione, il carisma, la vita dell’Istituto si condivide sul serio. Il sentirsi “mandate” é un dono grande e una responsabilitá. Che san Vicenzo ci doni la grazia dell’appartenenza affinché possiamo farci carico della vita e della missione del nostro Istituto!