Parroco a Vicobellignano (2)
Prima di lasciare Regona potei conoscere, seppure a grandi linee, la situazione critica della parrocchia di Vicobellignano dopo che il Vescovo nella sua lettera vi aveva fatto cenno.
Si era costituita, infatti, una numerosa comunità di protestanti come reazione ad alcuni «no» del parroco: una reazione esagerata per decisioni che non avevano condiviso a cui si assommava uno spirito tiepido ed indifferente comune a tutta la popolazione.
Con le sole mie forze ero sicuro che avrei fatto ben poco per risolvere il conflitto, e così pensai di affidare la mia nuova missione a Maria, aiuto dei cristiani e madre della Chiesa. Nella imminenza della mia partenza trascorsi una intera mattinata al santuario del Roggione dove, dinanzi all’immagine della Madonna, pregai a lungo per il gregge che mi stava attendendo. Non so se i fedeli di Vicobellignano in realtà mi aspettassero viste le premesse, però io sentivo che già mi appartenevano.
Lasciando Regona e avviandomi verso quelle terre brumose d’inverno e afose d’estate, mi sentivo come il pastore che lasciate le novantanove pecore al sicuro nel recinto, andava, attraverso luoghi sconosciuti, in cerca di quella che si era perduta. Non si trattava in realtà di una pecora riottosa da riportare all’ovile ma di una comunità in difficoltà da aiutare e io mi proposi di voler conoscere a uno ad uno tutti i suoi componenti, a prescindere da qualsiasi situazione in cui si trovassero.
Non ricordo nulla del viaggio, né dei primi giorni dal mio arrivo. Il mio pensiero fisso era quello di fare in modo che ognuno potesse rendersi conto che mi stava a cuore, che il mio intento non era quello di lanciare anatemi o di scavare fossati, ma di ricucire una trama di relazioni che le vicende e i caratteri delle persone avevano lacerato.
Se il Vescovo, forse sull’esperienza di Regona, aveva ipotizzato che sarebbero bastati dieci anni per riportare all’unità la parrocchia di Vicobellignano, dopo i primi mesi mi resi conto che occorrevano stagioni e stagioni di semine prima che quel terreno potesse dare un buon raccolto. Questa considerazione fu la chiave della mia fedeltà più che trentennale a questa comunità e del mio zelo. La mia missione sarebbe stata unicamente quella di seminare. Lo feci spargendo intorno a me cordialità, rispetto, benevolenza, carità. Diceva un vecchio parroco della zona che in quelle terre non si «faceva» il prete quando si era all’altare o sul pulpito, ma soprattutto quando si camminava per le strade polverose insieme alla gente o per cercare la gente e quando, nella solitudine della chiesa, si passavano le ore in ginocchio per loro. Dopo un anno conoscevo tutti, le situazioni familiari ed economiche, le risorse, le debolezze, le fragilità ed anche le chiusure. Non serviva che io tuonassi dal pulpito contro chi alla domenica andava nei campi anziché venire a Messa, o alle fiere paesane invece che alla dottrina e ai Vespri. Il mio essere in chiesa al confessionale al mattino presto, il rimanervi a lungo anche dopo la messa, dedicarmi alla Dottrina domenicale con la stessa puntualità e preparazione quando c’era un bel gruppetto di persone come quando i fedeli erano il sagrestano, suo figlio e la mia perpetua, lasciare la porta della canonica aperta, volevano essere il modo visibile e concreto per dichiarare la mia disponibilità all’accoglienza, al dialogo. Ma la gente continuava per la sua strada. Decisi , allora, che siccome non venivano, sarei andato io da loro. La mia divenne così prevalentemente una pastorale in uscita. Se sapevo di un malato in una famiglia non aspettavo che mi chiamassero al momento dell’estrema unzione, mi affacciavo e insieme a parole di conforto ai familiari, alla benedizione al paziente, facevo scivolare un po’ di denaro sotto il suo cuscino.
Andavo a trovare anche i contadini che lavoravano le terre di proprietà della parrocchia. Non volevo che mi considerassero l’esattore delle imposte, per cui cercavo di interessarmi del loro lavoro ancor prima del momento del raccolto, dell’andamento delle coltivazioni e della loro famiglia. E quando c’era da fare la spartizione dei raccolti, cercavo di non applicare la giustizia matematica, ma quella evangelica, che teneva conto delle bocche da sfamare.
Dopo il catechismo mi univo ai gruppetti dei bambini, anche figli di protestanti, che ritornavano a casa, e ogni volta cambiavo il rione, fermandomi con le mamme, per salutarle, ma soprattutto per far loro comprendere che c’era continuità tra la formazione in famiglia e quella in parrocchia.
La chiesa nasce grazie alla capacitá di creare dei rapporti di stabilire dei vincoli. La comunitá si forma dedicando tempo a stare, a conoscere, ad esserci dentro le situazioni, condividendo i passi dei fratelli. Grazie san Vincenzo perché ci insegni l’arte della pazienza, la sapienza dell’essere una presenza costante, fedele, sincera che sa
essere “accanto” con discrezione ,a anche con fermezza!