La mia famiglia
Quando sono nato, il 9 marzo del 1845, nella mia famiglia erano già nati Luigi Giovanni, morto a un anno di età, Elisabetta Arcangela, che chiamavamo familiarmente Bettina, Caterina Alberta morta a due anni, Luigi Stefano, Rocco morto a cinque anni, Giuseppe Matteo, Rocco Demetrio e Clemente, e dopo di me nascerà Pio Carlo Alberto. Lutti e gioie avevano accompagnato, fino a quel momento, 20 anni di matrimonio dei miei genitori. Mia mamma non parlava dei figli morti, conservava nel suo cuore il dolore di queste perdite premature che le successive maternità non sono mai riuscite a farle dimenticare. Per ognuno di questi figli che ha generato e che non ha potuto crescere si sentiva ugualmente e per sempre madre.
Per tradizione i miei erano mugnai; mugnaio era mio nonno e mugnai erano i suoi tre figli, tra cui mio padre Baldassarre.
La mia famiglia, grazie a questo lavoro, era abbastanza agiata; era infatti proprietaria del mulino, e il reddito che il lavoro produceva, era impiegato non solo per vivere, ma anche per migliorare l’economia della casa. Per questo noi bambini siamo rimasti in casa mentre tanti nostri coetanei, ancora in tenera età, erano costretti ad andare a lavorare, lontano dai loro genitori e familiari. Ho sperimentato la cura dei miei genitori verso di me che si manifestava in mille modi ora più semplici ora più impegnativi, dalla abbondante scodella di latte che la mamma mi faceva trovare pronta al mattino, alla possibilità di frequentare la scuola, dalla puntuale raccomandazione serale di mia mamma a dire le preghiere prima di dormire, alle parole severe di mio padre che si riprometteva di punirmi seriamente se mi fossi allontanato troppo da casa per andare lungo il fiume con i miei amici, fino a qualche scappellotto preso in silenzio perché troppo consapevole di averlo meritato.
Nel lavoro di mugnai, era fondamentale la posizione del mulino, ma altrettanto l’ingegno e l’onestà. Sentivo racconti di mugnai che mescolavano farina di pietra con quella di grano, ma sono sicuro che non era così per mio padre, perché ho trascorso diversi anni al suo fianco e non ho mai colto nessuna frode a svantaggio dei suoi clienti.
La presenza di mia madre, anche se discreta, era determinante sia per noi figli che per la famiglia. Ci insegnava a pregare al suono delle campane, ci trasmetteva con le parole e con l’esempio i principi della fede cristiana e si dedicava a mantenere l’unione familiare sopra ogni cosa. Mio padre, che aveva il controllo degli affari, in famiglia lasciava a mia mamma la parola e l’iniziativa.
Mia sorella Elisabetta la aiutava nella conduzione della casa e nell’accudire noi più piccoli. Io le ero molto affezionato anche se era più severa ed esigente della mamma. Quando mio fratello don Giuseppe ebbe la nomina a parroco di Pizzighettone si occupò di lui e della sua canonica, infatti nel frattempo mio fratello Luigi si era sposato e mia mamma era coadiuvata dalla nuora. L’arrivo dei nipotini aumentò il numero dei membri familiari e portò in casa una ondata di tenerezza e di freschezza.
Appena undicenne, manifestai che volevo andare in seminario. Mio padre non mi disse né sì, né no, solo che aveva bisogno del mio aiuto. E il lavoro divenne per me una risposta ad una esigenza della famiglia insieme ad una severa scuola di vita.
“Ricorda il cammino che il Signore ti ha fatto fare…..” le prime impronte che si marcano a fuoco in noi sono quelle ricevute nel seno della nostra famiglia, i nostri genitori hanno contribuito a darci forma nel cuore, nella mente e nel corpo! Siamo quello che abbiamo ricevuto e quello che abbiamo frequentato! San Vincenzo ci doni la grazia di leggere la nostra storia, la nostra vita dentro il grande “sogno” di Dio!